C’è un telefono nero che squilla, e ci sono delle immagini che scorrono su uno schermo, frammenti, dettagli, gesti: Rio Bravo, Vera Cruz, Ultima notte a Warlock, il western e il tuffo oltre il tempo di quel capolavoro che è C’era una volta in America. Ma un viaggio nel tempo (del cinema?) è la mostra dedicata a Sergio Leone – da ieri all’Ara Pacis di Roma, fino al 3 maggio 2020 – che col titolo C’era una volta Sergio Leone ci porta nella biografia del regista romano, che molto almeno qui coincide coi suoi film, tra le immagini private e quelle dei set, gli appunti, gli incontri, le storie famigliari, i volti delle persone con cui ha lavorato; gli spartiti di Morricone – e il pianoforte su cui accennava le prime note delle colonne sonore – i libri, i costumi, le fotografie, un materiale ricchissimo per scoprire il regista e l’uomo, ma soprattutto quella macchina dell’immaginario che è questo universo.

LA SFIDA come ha spiegato Gianluca Farinelli, direttore della Cineteca di Bologna che ha curato l’allestimento – in collaborazione con Rosaria Gioia e Antonio Bigini – variazione della stessa mostra già allestita alla Cinémathèque di Parigi – è proprio quella di «smontare il cinema di Leone per renderne evidente la «geniale cifra di autore» che molta critica dell’epoca, sia in Italia che in Francia, non ha riconosciuto. E cercando i riferimenti della sua opera – che sono molti e anche non cinematografici – si traccia una linea che evidenza come il cinema di Leone (non vale soltanto per Tarantino) ha segnato il cinema moderno (e postmoderno) a cominciare da un genere, il western appunto, che era arrivato a un punto di stallo. Leone a sua volta citava, persino «copiando» come nel caso di Per un pugno di dollari, in cui ricalca, scena dopo scena un film di Kurosawa, La sfida del samurai, anche se i due film sono completamente diversi. Fa parte della sua invenzione – o della sua «rivoluzione», così come il suo modo di lavorare con gli attori o di creare delle star – è il caso di Clint Eastwood – i suoi paesaggi lunari, gli spazi deserti, il gusto per l’illusione.

C’è l’amore per la pittura, De Chirico ma anche Goya e Degas, ci sono le letture, i libri che vanno da Trilussa a Dos Passos, l’America e Roma di un ragazzino nato a Trastevere e cresciuto dentro al nitrato d’argento. Non basterebbe da sé però, il «laboratorio Leone» è qualcosa in più: un sogno e il racconto di una mitologia, un mondo fortemente simbolico, la realtà e il suo tradimento, sfumata come una memoria che galleggia oltre il tempo. E al centro c’è sempre lui, Sergio Leone, ragazzino e adolescente – era nato il 3 gennaio 1929, è morto il 30 aprile 1989 – cresciuto sul set, dietro al padre, Vincenzo Leone, che si firmava Roberto Roberti per non fare scandalo, e la madre, l’attrice Bice Waleran – pseudonimo per Edvige Valcarenghi – che però abbandonerà piuttosto presto la professione.

Da ragazzo troviamo Leone giovanissimo assistente per De Sica in Ladri di biciclette ma anche per Aldrich e Wise, e per più di dieci anni continuerà a essere conteso per la sua capacità di dirigere attori e maestranze sul set, di esaudire le richieste più improbabili, e di stare all’occorrenza, e molto bene, anche dietro la macchina da presa – Mario Bonnard, ormai anziano e spesso malato, con cui diventa amico, si farà sostituire molte volte.

PICCOLINO è paffuto, ha un triciclo e ovviamente un pony a dondolo, i calzoncini corti. Il suo primo film è un peplum, Il colosso di Rodi(1961), poi arriva Per un pugno di dollari – che all’origine si chiamava Magnifico straniero. Il western per Leone è ovunque, anche in Omero, e la tragedia è nella vita degli uomini.
Stanza dopo stanza, bozzetto dopo bozzetto, dal poncho di Eastwood ai vestiti di Claudia cardinale, passando per la New York di Noodels/De Niro, fino ai ricordi di Carlo Verdone di cui produsse i primi film, l’«universo Leone» si compone, prende alcune direzioni, apre a suggestioni, a volte si perde in questa vastità onnicomprensiva – spesso un difetto di queste operazioni. Ciascuno però può ritagliare la propria suggestione, lasciarsi stupire, percorrere una direzione. Perché la mostra con Leone racconta una storia del cinema possibile, un fare che forse non esiste più, un’immagine che narra di sé stesso e del mondo.