Nel buio della foresta, chiusa ma attraversabile da qualunque direzione si giunga, ci si ritrova a giocare con le strutture narrative delle fiabe come se le 31 funzioni individuate da Vladimir Propp fossero esse stesse trasformate in un luogo-narrazione. Facile, quindi, cedere alla tentazione di considerare la foresta come il luogo originario nel quale il racconto prende forma e dove si deve necessariamente tornare per decostruirlo, per permettergli di esistere in forma nuova. La foresta, quindi, si presenta, paradossalmente, come una tabula rasa già scritta, dove ciò che è scritto è riassunto nel nero ipertestuale e qui probabile di un set che non fa altro che presentarsi ossessivamente come set; come luogo documentario, all’interno della foresta stessa, che permette alla foresta finzionale di esistere in quanto produttrice di storie.

Di fronte a questo vertiginoso affastellarsi di riferimenti metatestuali, esibiti un po’ pedestremente come un autocompiaciuto saggio di decostruzionismo, inevitabilmente viene un po’ da sorridere. Rob Marshall, cineasta che non riesce mai a evitare di mostrare la propria formazione intellettuale, tenta visibilmente, dopo essersi arenato sull’omaggio felliniano di 8 1/2, di agganciare da un lato il pubblico che affolla le sale della Cenerentola branaghiana, e dall’altro di rimettere in circolazione le proprie credenziali cinefile.
Evidente che il modello di riferimento è, per quanto apparentemente l’uno distante dall’altro, il Fleming de Il mago di Oz e il Minnelli di Brigadoon.

In entrambi i casi la realtà del set coincide con il sogno lungo un giorno del cinema da opporre a una realtà considerata, a torto o ragione, bidimensionale. Nel buio della foresta di Marshall, dunque, Cappuccetto rosso intreccia la vicenda di Cenerentola. E i fagioli magici di Giacomino incrociano la treccia di Raperonzolo. Il tutto tenuto insieme da una strega ex machina che getta nel calderone della fabula un fornaio e sua moglie desiderosi di avere un figlio. Percorrendo a ritroso la raccolta degli oggetti necessari all’incantesimo (la mantellina di Cappuccetto rosso, la treccia di Raperonzolo, la scarpina di Cenerentola…), il fornaio esce dal regno della fiaba per ottenere, come incoronazione, il principio di realtà stesso che nel suo caso coincide con la paternità responsabile.

In questo team-up fiabesco, cui non deve essere del tutto estraneo il piacere supereroistico di intrecciare vicende di personaggi fra loro lontani ma che si muovono in mondi paralleli, il già visto è il fulcro sul quale s’innesta lo scarto della novità. Ciò che non convince sino in fondo di Into the Woods è la letteralità della messa in scena. Marshall non abbraccia mai sino in fondo la vertigine del suo progetto, preferendo restare agganciato alla superficie di un meccanismo cui non permette di liberarsi dai vincoli che gli consentono di esistere in quanto tale. Come se il cinema non fosse altro che il contenitore di un giochino metatestuale.

Piuttosto che abbracciare il piacere della messa in scena, Marshall opta per l’evidenza della struttura, quasi a volersi sincerare che tutti abbiano compreso. L’unico momento di apparente libertà del film, ma troppo breve, al punto da farlo ricadere nella griglia di una scrittura che marca strettissimo i personaggi, è quando il Principe azzurro di Cenerentola sbanda, ricambiato, per la moglie del fornaio adducendo a sua parziale discolpa che lui è «charming» e non può farci nulla. Un attimo, che permette però di rimpiangere un film che avrebbe potuto forse essere qualcosina di più dell’esercizio di stile di un cineasta troppo ansioso di mettere in campo la propria intenzionalità formale. Così com’è Into the Woods, diciamolo: un Tim Burton poco convincente, rischia di alienarsi il pubblico di Cenerentola e di non conquistare gli altri.