La brevitas è un’arte che rende esemplare la scrittura di Sergio Bologna. Nel pamphlet di 48 pagine, Knowledge Workers. Dall’operaio massa al freelance (Asterios, euro 7), questa poliedrica figura dell’operaismo italiano, storico del movimento operaio, freelance, attivista e fondatore di riviste d’avanguardia come Primo Maggio, ripercorre la traiettoria storica che dall’operaio massa ha portato ai freelance, al «lavoratore autonomo di seconda generazione» e al self-employed (auto-impiegato). Pagine fulminanti scritte con lo stile del «post-operaismo» – il «post» qui viene adottato perché il fondatore dell’operaismo Mario Tronti sostiene che l’operaismo si è concluso con la rivista Classe operaia già negli anni Sessanta.

Bologna si attiene a questa distinzione. Ciò che gli interessa è delineare una caratteristica specifica della storia degli intellettuali emersa nel Dopoguerra: la lotta contro il crocianesimo nell’accademia e il conformismo regnante sul mercato editoriale. Un’eccezione riconosciuta che continua a riscuotere l’interesse nelle nuove generazioni, non solo italiane.

Il «post-operaismo» è un’analisi materialista che vede nel lavoro, senza distinzioni, una soggettività storica e non una variabile dipendente dall’impresa, né il premio ottenuto da un soggetto «meritevole». Ciò che lo contraddistingue dal suo tradizionale insediamento sociale – la classe operaia – oggi è l’originale analisi di mondi operosi ben più articolati e contraddittori. Sergio Bologna si rivolge al lavoro autonomo dov’è avvenuta una trasformazione che coinvolge il ceto medio proletarizzato escluso dal Welfare, mentre il diritto del lavoro lo considera ancora un’«impresa».

Questo approccio viene ribaltato. Bologna racconta il caso della Freelancers Union americana, o quello dell’italiana Acta, dove l’auto-organizzazione dei freelance è un’alternativa all’identificazione con il mondo dell’imprenditoria o del professionalismo borghese. «Il post-operaismo – scrive – è riuscito dare un pensiero collettivo ai self-employed, a renderli consapevoli della loro identità di lavoratori». In realtà, tale pensiero collettivo esiste al di là della vicenda italiana. Al post-operaismo, e a Sergio Bologna in particolare, si deve la capacità di avere coniugato la teoria con la prassi, coltivando la «critica permanente del nostro essere storico». Questa critica è generata da una tensione etica oggi riscontrabile anche tra chi non è un teorico, né un operaista.

L’operaismo è «una stretta aderenza alla realtà e rapporto costante con l’azione e la pratica militante». Parole che descrivono lo stile contemporaneo, e spiazzante, delle analisi dello stesso Bologna. «Il suo rigore scientifico non è destinato alla valutazione accademica – aggiunge – l’analisi può essere anche parziale, ma deve mettere in moto delle dinamiche soggettive che portano le persone a tutelare e difendere i propri diritti». Dalla catena di montaggio fordista al lavoro della conoscenza nel ceto medio, nelle classi lavoratrici e inoccupate. Il post-operaismo guarda al mondo. E non solo perché conosce una straordinaria diffusione in lingua inglese.