«È distante la Birmania?». È attorno a questa domanda che si costruisce Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi, film di Marco Martinelli, ispirato all’omonimo spettacolo teatrale, da lui scritto e diretto, e portato in scena dal Teatro delle Albe, che viene presentato questa sera a Milano (ore 21.30 Arcobaleno) all’interno del progetto FILMMAKER Club che porta a Milano, in serate uniche, il cinema di ricerca internazionale.
Un’idea nata in volo, come racconta Martinelli, scoprendo la somiglianza tra la sua attrice e compagna di sempre, Ermanna Montanari e la leader birmana.

«Le mie drammaturgie hanno sempre guardato al cinema raccontando di mitologie del presente – dice il regista – È un’osmosi fra i due linguaggi: per tanti anni il cinema è stato sottotraccia nei nostri lavori . Poi, a un certo punto, le proiezioni hanno cominciato a entrare in maniera massiccia nei nostri spettacoli, fino ad arrivare al piacere di fare un film, di poter arrivare al primo piano».
Ed è proprio un primo piano, quello di una bambina, a venirci incontro all’inzio e traghettarci nella visione: sarà lei a guidarci nella perlustrazione, a fornirci indicazioni di sguardo, all’interno di uno spazio che si rivela magazzino teatrale. Qui, tra oggetti che sono memorie di spettacoli passati, la piccola ricognitrice si trova faccia a faccia con l’attrice; basta un fiore e avviene la trasformazione: Ermanna diventa Suu e tutto può ricominciare dall’inzio: quando la protagonista di questa storia ha appena due anni e suo padre, Aung San, capo del movimento nazionalista che portò il Paese all’indipendenza, viene assassinato.

Dunque, c’era una volta ci fu davvero, in un paese lontano, una bambina… I presupposti sono quelli della fiaba di cui Martinelli cattura le peculiarità strutturali adattandovi il racconto di una parte di vita (il film, come lo spettacolo, si ferma, senza entrare nelle ultime polemiche circa il silenzio della leader birmana sulla crisi umanitaria dei rohingya, la minoranza musulmana) che è il farsi d’un destino: la giovinezza, dalla nascita al distacco dalla casa paterna, alle prove per diventare adulti, per confermarsi come essere umano. Il film non sfugge il confronto con la dimensione magica propria della favola, riuscendo a vedere, nella tragicità del reale, occasioni aperte al meraviglioso: come quando Suu, imprigionata in casa agli arresti domiciliari, si intrattiene con i Nat, quegli esseri notturni, nascosti nei tronchi degli alberi o dentro i vulcani, che fin da bambina la tenevano sveglia con domande, dubbi e tormenti.

Come in una fiaba la rappresentazione è sottoposta a una marcata stilizzazione (l’immaginario cinematografico di ispirazione, stando a quanto dichiarato dallo stesso regista, è quello di autori che si sono imposti per la loro visionarietà e ritualità, quali Derek Jarman o Paradžanov), a una organizzazione episodica dei fatti, evidenziata da cartelli che racchiudono brevissime indicazioni relative al luogo e al tempo delle azioni.

Quella di Martinelli è un’operazione dai fini intenzionalmente didascalici, illustrativi, didattici (e al risultato contribuisce la recitazione, che batte sul senso di ogni parola: diretta, frontale e per questo conforme all’iconica frontalità della scena): termini di cui non bisogna avere paura, a patto di adoperarli nel loro significato originario, ripuliti, quindi, dalle spregiative incrostazioni interpretative. Termini che riportano subito a mente il teatro epico di Brecht, che da molto tempo è modello riferimento per le Albe «epico» da intendersi quindi nell’accezione antica di «esposizione di fatti», di un raccontare le situazioni senza far ricorso agli orpelli: raccontare non per scatenare l’azione, bensì per ribadirla e commentarla; per pensarla. Del resto, come sosteneva proprio Brecht: il pensare è uno dei massimi piaceri concessi al genere umano.