[Quando arrivò per la prima volta alla mostra di Pesaro, nel ’74 Otar Iosseliani era scortato da qualcuno, certo un agente che seguiva ogni suo movimento. Il giovane regista che non era certo un novellino in fatto di controlli, a tavola brindava anche alla sua salute. «Anche lui deve pur vivere» diceva. Portava un film che fece epoca C’era una volta un merlo canterino ed ancora ha la capacità di emozionare, lezione di sopravvivenza in un paese sotto controllo, non fosse che il protagonista muore. Ma muore per distrazione, mentre attraversa la strada, per guardare una ragazza. Tutta la vita di Guia è stata così, timpanista dell’orchestra arriva sempre nel momento preciso in cui tocca a lui dare i colpi sui timpani, infilandosi la giacca su per le scale. Fa così tante cose durante la giornata che non riesce mai ad arrivare in tempo da nessuna parte, dà troppi appuntamenti contemporaneamente (non può resistere alle ragazze), e poi non si può dire di no agli amici che compiono gli anni. Così la direzione dell’orchestra ha molto da ridire sul suo comportamento. Erano gli anni in cui era piuttosto pericoloso mettere in scena i ragazzacci: mentre a Praga un’intera generazione di nuovo cinema era stato bloccato, ed altri che lì avevano studiato provenienti da altri paesi socialisti (Kusturica) era riuscito ad esportare un’attitudine all’indisciplina che già possedeva in abbondanza, la Georgia aveva come massimo prodotto pregiato di esportazione la commedia. Così, pur con grandi ostacoli (il Merlo canterino uscì a Tbilisi per una sola settimana e sparì dalla circolazione) questo inimitabile film fu invitato a Pesaro e diventò famoso.
Non ha mai rinunciato alla nazionalità georgiana, ci diceva Iosseliani, tornava ogni volta che voleva nel suo paese, anzi quando gli serviva qualche suppellettile pregiata per un film, non faceva che andare a prenderla a casa sua, antica famiglia (come del resto lo erano quelle dei più conosciuti registi sovietici, i Michalkov, gli Schelghelaja e anche Tarkovski). Da Parigi ha poi continuato la sua attività, con uno sguardo sempre un po’ obliquo, pieno di sottintesi, intessendo i suoi film come fossero disegni per tappeti volanti.
A Pesaro quest’anno ha tenuto una memorabile lezione di cinema di cui cercheremo di tracciare alcune linee da appunti presi a penna (si potrebbe dire in perfetta sintonia con lo stile del regista), preceduta da alcuni brani dei suoi film che possiedono già i segreti di uno stile (meglio non sapere, meglio solo guardare) come nel complesso di suoni e voci di Pastorale – un popolo dove non si canta più in coro ha perso la sua identità, ci diceva una volta – l’apparizione di un fantasma su per le lussuose stanze di Les favoris de la lune, la pioggia che fa da cortina tra l’obiettivo e le danzatrici in Un incendio vistoda lontano, Chantrapas, il film del viaggio di un artista georgiano – «iscriviti al partito e tutti i tuoi probelmi saranno risolti» – verso lo stato ideale della democrazia, la Francia. Ma le cose non stavano proprio così. Il primo discorso sul metodo ce lo ha dato Iosseliani stesso la prima volta che lo abbiamo incontrato, quando srotolò una sua sceneggiatura che in realtà era un lungo foglio rettangolare di alcuni metri in cui erano esposti rigorosamente i sentieri della sua immaginazione, ci indicava i percorsi di personaggi, angoli di ripresa,i movimenti. Un tappeto? una mappa del tesoro? Sintetizzerà al pubblico alcuni elementi, ma è come intraprendere un viaggio per cercare di impadronirsi del vello d’oro. «Il cinema, esordisce, è un’arte molto divertente che comporta rischi anche tragici, ad alcuni dà anche tanti soldi e questo dimostra che hanno venduto l’anima al diavolo. C’è un proverbio che dice: chi sa fare faccia e chi non sa fare insegni. Io spero di continuare a fare, insegnare non sarebbe la mia prima scelta. Racconterò come sia in atto la caduta tragica di qualità, la mancanza di pensiero. Non posso dire che il cinema sia un’arte metafisica, filosofica, anche se alcuni si sono avvicinati a questo, come Orson Welles, Vittorio De Sica, ci sono stati registi straordinari come Zavattini, René Clair, Jean Vigo. Il nostro passato è ricco e sappiamo che abbiamo tanti esempi da seguire. Possiamo ispirarci a quelli che hanno elaborato un linguaggio cinematografico».
La caduta del savoir faire del cinema
«Sono a Pesaro, la mostra che per 50 anni ha difeso il vero cinema. Io racconterò la caduta del savoir faire del cinema che mostra cliché e nessuna inventiva e si allontana dalla sintassi e dalla grammatica del linguaggio cinematografico.
Cominciamo da Bresson. Il cinema era nato come fotografia in movimento ed è diventato qualcosa che ti faceva trattenere il respiro. C’erano ad accompagnarlo anche pianisti, in alcuni casi intere orchestre sinfoniche. Questa malattia di avere la musica a commento è diventata una specie di stampella, un appoggio per fare buona impressione. Il cinema così si è allontanato dalle sue origini ed è diventato un mezzo per fare profitti, inventare sempre più merci. Il sonoro, i colore, il formato dello schermo, la catastrofe del 3D e ora ci saranno anche gli odori. Quel suono digitale pluridimensionale per cui lo spettatore non guarda più lo shermo, ma si volta per vedere da dove arriva il rumore. La musica è un testo. Il cinema è un testo da capire.
Meno il testo diventa imitazione della vita più è testo. Siamo quasi obbligati, vediamo questi uccelli che ci volano davanti e ci viene voglia di prenderli, avete il suono che proviene da destra e da sinistra e questo ci allontana dal contenuto. Il miglior film di De Sica è Miracolo a Milano, così semplice. Si capisce tutto, la felicità della vita, la tenerezza, l’amicizia. Capiamo che le borse non appartengono a chi le porta e può essere perdonato se le porta via e che ci sono i colombi magici ad aiutare Totò. I personaggi finché sono poveri sono nobili. È un film pieno di tristezza, di solidarietà, perché tutto finisce male su questa terra, lo sappiamo fin dai tempi di Dante. Il cinema questo linguaggio lo possedeva un tempo, prima di diventare commercio. Con il metodo capitalista siamo obbligati a concentrarci molto perché un film costa molto, siamo obbligati ad essere rapidi per spendere meno possibile. Noi dobbiamo dimenticare di diventare ricchi col nostro mestiere, altrimenti c’è qualcosa che non va. I mercanti hanno iniettato una sorta di veleno nel pubblico. I giovani oggi rapidamente capiscono che nel cinema bisogna prostituirsi, sempre che abbiano idee, scoprono che bisogna fare quello che è richiesto, quello che vuole il pubblico.
Hollywood propone lo schema di uno solo contro il mondo, il cui il male è vinto dal bene (mentre nel mondo succede il contrario). Osservare è stato il dovere di tutti gli scrittori del XX secolo, Bulgakov, Thomas Mann e anche del XIX secolo con Dostojevskij, Tolstoj, per citare i russi, ma anche Mark Twain che ha scritto capolavori del pensiero e Alekxandre Dumas padre che era il massimo del pensiero con Il conte di Montecristo e I tre moschettieri. La stessa cosa è successa al cinema: prendiamo Citizen Kane, il più drammatico, in cui si prova che il bene non prevale, ma resta solo un ricordo nella testa, l’infanzia che scompare perché perdiamo tutto. E non si trattava di una predica, ma di provare che ogni atto della vita deve essere come se fosse l’ultimo peché il rimpianto non serve a niente. La vita delle persone che hanno vissuto onestamente non sono numerose (rispetto molto Garibaldi, dice). Il mondo non si può cambiare: registrare questo era il nostro compito, ma siamo caduti in una trappola e i giovani sono obbligati a lasciare il cinema per l’impossibilità a farlo.
Il metodo
Vi mostro come bisogna essere rapidi nel cinema. Me lo ha insegnato Chukrai (il regista della Ballata di un soldato, ndr) che un giorno mi disse: «per fare un film in Russia ci vogliono sei mesi, ti dico come farlo in due mesi così la censura non potrà dire niente». Disegna rapidamente su un foglio (riportiamo in queste pagine un esempio del suo metodo) e indica gli spostamenti degli attori – questo canta, questo gioca, questo porta qualcosa – «La musica, sottolinea, non esiste nei miei film, resta a livello di rumori come il traffico, una porta che scricchiola, il ticchettio di un orologio, ha sempre una fonte da cui proviene» (ed è importante notarlo, visto che i suoi film hanno una forte componente sonora nel canto corale, negli strumenti). Nel disegno sono indicati tutti gli angoli di ripresa. «Eccetto qualche variazione di montaggio resto fedele a questo schema che preparo da solo, così quando arriva la censura il film era già stato girato, iniziavo il montaggio, ma per loro stavo appena cominciando le riprese. Questo schema mi permette di fare un film in 6 settimane. Prima il nostro mestiere si basava sulla formula classica di tutte le misure – disegna la formula matematica – da Babilonia alla Grecia, la formula aurea, la proporzione della mano rispetto al braccio, della testa rispetto al corpo e così via, realizzata anche da Leonardo – disegna per sommi capi l’Uomo Vitruviano – . Prima il film veniva proiettato con il pianista in sala, poi si sono inventati il vinile per accompagnare le scene e hanno scoperto che questo rendeva. Gli ingegneri, che sono sempre al servizio dei mercanti o degli eserciti (inventano sempre una quantità di cose, anche gli smartphone che ci rovinano la vita e non ci permettono più di ricevere lettere) hanno riflettuto e hanno detto: se serve il suono tagliamo lo schermo e hanno messo il sonoro ottico a destra del fotogramma e così hanno rovinato le proporzioni.
La parola
Veniamo ora alla parola. Hanno cominciato con il cantante che ha di fronte un microfono. Il cinema muto era rapido, usavano il travelling, ma il microfono non poteva seguire la scena.
Allora ecco la soluzione (disegna due nasi, il naso A a sinistra e il naso B a destra): a sinistra si vede la nuca mentre parla B oppure la nuca di B mentre parla A. O vedete la nuca di A o vedete la nuca di B. La genialità di Hollywood è che non si può mai attraversare la linea che passa tra i due visi. Questa è una catastrofe per il cinema, i due possono continuare a parlare e non succede niente. Così a Hollywood è comparso il mestiere del dialoghista e non si tratta in genere né di Goldoni né di Shakespeare. Se non capite la lingua non capite niente, se invece la capite potete anche chiudere gli occhi, tanto non succede niente. E poi c’è la musica, un po’ angosciante, o toccante e così via. Ci sono musicisti che scrivono musica a chilometro. In Italia si doppiano i film che da una parte è un metodo geniale. De Sica, Fellini potevano far dire quello che volevano ai loro personaggi. Anch’io l’ho utilizzato questo metodo, mi permetteva di correggere e gli attori potevano essere liberi e non dovevano imparare a memoria un testo. Ma lo facevo nella stessa lingua, da francese in francese. Cercavo poi di non mettere troppe parole: il primo sistema di conoscenza è vedere e ascoltare, il secondo è la parola e dobbiamo sapere che la parola è menzogna, è un limite, non può esprimere mai il pensiero. Il nostro mestiere ci permetteva di utilizzare i gesti, gli sguardi, la parola non aveva un ruolo importante.
Poi gli americani hanno inventato un terzo formato, l’1:66 e poi, visto che si trattava di western, l’1:85. Ora, nelle piccole città di provincia non ci sono gli obiettivi e proiettori speciali per questo formato, se c’è un dettaglio in basso questo resta fuori campo. Nel mio film Lundi matin c’è un operaio che va al lavoro, lasciava in terra le sue pantofole e quando tornava le trovava e se le rimetteva. Queste pantofole non si sono mai viste al cinema.
In Europa grazie alla televisione abbiamo una velocità di 25 fotogrammi al secondo (negli Usa, a seconda dei posti, 24 al secondo) per cui cambia la velocità della voce, la tonalità dei suoni, un la diventa un do, la voce cambia. Una volta, volendo ringraziare il pubblico dopo una proiezione, sono tornato in sala ma il film era già finito da sette minuti e il pubblico uscito da un pezzo perché il film era stato proiettato a una velocità maggiore.
Il colore
Pensate a Miracolo a Milano o a Ivan il terribile a colori (dove c’è una scena di rosso, ma è come un quadro) Eizenstejn che non era un angelo, era un po’ un servo del bolscevismo – tutto Potemkin è una menzogna storica, i soldati non trovavano vermi nel cibo, la marina riceveva la migliore alimentazione dell’esercito e le persone non sono mai state fucilate sulla scalinata – per motivi di propaganda ha preparato la scena con una bandiera colorata di rosso, dipinta fotogramma per fotogramma, in onore del bolscevismo. Il colore a volte è utile ma ci allontana dal testo. Bianco e nero e con una sola fonte di sonoro», conclude, come un motto indelebile.
E infine dissolve sul problema dei sottotitoli. Buio in sala. Sta per iniziare C’era una volta un merlo canterino.