Il Clan dei Marsigliesi imperversa a Roma negli anni ’70, ne è padrona fino all’avvicendamento della Banda della Magliana che ufficializzerà il suo ‘debutto in società’ nel 1977. La vulgata parla della Banda delle tre B (Bellicini Berenguer, Bergamelli) come di un consorzio criminale dove i tre non agiscono sempre di concerto se non per le imprese eclatanti. Ma sbaglia nel tratteggiare il carattere dei tre.
BERENGUER, che ha i tratti del bel tenebroso, strafottente con i poliziotti che lo arrestano, è in verità un vigliacco, un pavido, uno che -quando può- manda avanti gli altri, un pauroso dalla faccia da duro salvato spesso e volentieri dalla paura che i suoi tratti somatici incutono. Chi era presente in piazza dei Caprettari asserisce che la morte di Marchisella non fu volontaria ma fu provocata da una indecisione di quello. Bergamelli è invece un sanguinario, un matto che non esita ad uccidere chiunque lo contrasti, uno loco che non ha paura ed agisce, appunto, sotto la spinta di lacerazioni caratteriali. Anni prima gli hanno ucciso il fratello e questo ne ha fatto un terminale omicida.
È Bellicini Maffeo, detto Lino, il personaggio più interessante dei tre. Poco incline alla violenza, misurato nei gesti,arguto,esperto nell’arte dell’evasione, colloquiale, charmant, occhi cerulei, faccia simpatica, tombeur des femmes, bello ma non tenebroso. Lino -le Questure sono giustamente restìe a propagandare dati sensibili che danneggerebbero indagini e fermi- è il vero capo dei Marsigliesi, se non indiscusso certamente riconosciuto come tale. È diplomatico, ha doti innate di mediatore. Forse è per questo che è l’unico dei tre ad essere ancora vivo. E, da vivo, continua ad essere un uomo defilato, irriconoscibile dato il lungo tempo passato, ben disposto alla buona tavola e al bon mot. Particolare interessante: i media non posseggono di lui alcuna foto.
ANTONIO PINNA, considerato erroneamente per lungo tempo il driver della banda, era più semplicemente un meccanico abile, molto abile, al soldo quasi esclusivo di Bellicini. Un malavitoso mai assurto al rango di boss, deambulante in un sottobosco fatto di piccole rapine, danni alle assicurazioni, furti. A costui il Clan si rivolgeva quando aveva bisogno di un’automobile, possibilmente truccata, idonea a seminare la pula nella fuga dall’ennesimo colpo. Aveva l’officina in via Carlo Pisacane di fronte al carrozziere Marcello Sperati «Scannella» che fu, anche lui, interpellato per sistemare l’ Alfa coinvolta nell’omicidio Pasolini. Pasolini se ne avvaleva per motivi lessicali. È lui quello che compare in una foto accanto allo scrittore al Pincio.
ALL’IDROSCALO, per la bisogna, furono assoldati due personaggi dissimili: il Pinna e Giuseppe Mastini. Johnny lo Zingaro, al pari di Pinna, aveva una capacità di guida sorprendente(ne rimase basito Antonio Mancini che gli aveva affidato per una dimostrazione la sua Ferrari). Pinna non se la sentì di martoriare il corpo del suo ‘amico’ poeta forse proprio a ragione di una frequentazione che aveva il sembiante di una frequentazione amicale. Si prepara il sequestro D’Alessio: percorsi, auto da utilizzare, vie di fuga. Viene versato all’uomo un cospicuo anticipo (sta di fatto che i Carabinieri troveranno complessivamente nella sua officina 50 milioni in contanti e una Santabarbara ). Pinna a un dato momento recalcitra, non ne ha più voglia, ha paura. Sembra che la storia sia finita lì ma un giorno si presenta al solito bar in via Fonteiana con il volto tumefatto: ha paura, trema, qualcuno gliel’ha giurata. Ma non sarà la defezione a condannarlo. Un giorno dà appuntamento a Bergamelli al medesimo bar e gli fa trovare i Carabinieri. Bergamelli riesce a fuggirema la sorte di Antonio è segnata.
UN GIORNO BERGAMELLI lo convince, con le buone, a fare una gita. Dalle parti di Ardea le ruspe stanno preparando il terreno per un invaso artificiale, uno di quei laghetti adibiti alla pesca amatoriale. Forse, gli dice il boss, si può già pescare. Trascorrono una mezza giornata insieme e Bergamelli lo blandisce, si confida,lo mette a suo agio a tal punto da fugare in lui ogni perplessità che il suo interlocutore abbia fatto parte del manipolo che lo ha, pochi giorni prima, massacrato di botte. Si è fatto buio e i due fanno per tornare a Roma. È nell’atto di mettere in moto che Bergamelli, al volante, gli chiede di cercare una cosa sotto il tappetino. Gli appoggia allora alla tempia una Browning 6,35, una pistola con una potenza di fuoco molto bassa. Il proiettile perfora il cranio ma perde subito potenza e viene ritenuto dalla teca: la peculiarità di questo calibro è che non produce fastidiosi spargimenti di sangue. Antonio viene seppellito lì, in una buca naturale del terreno in preparazione. L’indomani le ruspe finiranno inconsapevolmente il servizio. Bergamelli guida l’Alfa di Pinna, la stessa che ha ucciso mesi prima Pasolini, a Fiumicino. Per non dare nell’occhio resterà in parcheggio delle ore, dormendo sul sedile posteriore e tornerà a Roma il giorno dopo con i mezzi pubblici. Qualcuno metterà in giro una favola: che Pinna sia sepolto dalle parti della villa della Palombara (erroneamente conosciuta come villa di Plinio) nell’area delle Terme del Mitra, a Castefusano. Ma sono 41 anni che i resti di Antonio Pinna giacciono dalle parti di via delle Mente ad Ardea. Caso chiuso. Parce sepulto.