«Ho una tremenda passione per le arti figurative e per Lei in particolare». È una riga cavata da una lettera, il destinatario è Giorgio Morandi. Sorprende di più sapere che il mittente è uno degli storici più importanti di tutto il Novecento: Arsenio Frugoni. In quella lettera, datata 10 gennaio 1947, Frugoni chiedeva a Morandi un suo disegno.
Che Frugoni nutrisse un interesse per la storia dell’arte lo si sapeva da tempo, e basterà citare il suo articolo (del 1957) sugli affreschi di Clusone. Ciò che non si sapeva o, meglio, che solo in pochissimi conoscevano, e filtrava come una luce fioca dalla bibliografia dello studioso, era che Frugoni aveva dedicato una serie di ‘conferenze’ allo sviluppo della pittura, della scultura e dell’architettura in Italia, che segnarono l’accendersi dei suoi interessi per le arti figurative.
C’era ancora la guerra, erano gli anni in cui insegnava al liceo Calini di Brescia. I testi furono raccolti in piccoli libretti, apparsi presso La Scuola, storica casa editrice bresciana. Ebbero però una sorte non felice, poiché andarono con tutta verosimiglianza cancellati nel bombardamento del 2 marzo 1945 che distrusse il magazzino: scampò ben poco. Ma in quel poco almeno si salvò qualche copia, custodita gelosamente dalla figlia, Chiara Frugoni.
È ora possibile leggere il testo delle diciannove conferenze (su trentuno) dedicate alla pittura italiana, e questo grazie all’impegno della casa editrice Morcelliana che, con una bella prefazione di Chiara Frugoni e l’attenta curatela di Saverio Lomartire, ha pubblicato Storia della pittura d’Italia (pp. 636, euro 48,00). Il ricchissimo apparato illustrativo – quasi mille immagini a colori – accompagna e fa da contrappunto al testo approntato da Arsenio Frugoni. Si tratta di un’aggiunta che squaderna e, in qualche modo, rende visivamente espliciti i riferimenti alle opere disseminati nel testo. All’elenco di immagini premesso ai singoli fascicoli che compongono il volume è infatti anteposto un elenco di «proiezioni». Molto probabilmente la lettura doveva accompagnarsi alle proiezioni, appunto, delle immagini. Magari ricorrendo alle piccole lastrine di vetro antenate delle moderne diapositive.
Restano certo aperti alcuni interrogativi, cui né la figlia dello studioso né il curatore sono riusciti a dare risposta. In primis, a chi fossero destinate queste ‘conferenze’, perché, per quanto scritte, le pagine di Frugoni conservano tutto l’appeal di un discorso parlato, pronunciato davanti a un pubblico e che presupponesse, come ben scrivono Chiara Frugoni e Lomartire, un uditorio che si potesse avvantaggiare anche della visione delle diapositive. E non è nemmeno inverosimile che il progetto fosse pensato per offrire ai licei una serie di testi da accompagnare con la proiezione delle immagini. Poi le cose dovettero andare altrimenti, e di quelle pagine si sono perse traccia per lungo tempo. I due saggi di che aprono il volume aiutano a situare al meglio tanto gli interessi artistici di Frugoni che le circostanze in cui il testo nacque.
Ma dunque, cosa contengono le conferenze adesso riunite in volume? A una scorsa superficiale ci si potrebbe far trarre in inganno, e considerare il libro una specie di manuale. Nulla di più sbagliato. Si tratta in realtà di un vero e proprio ‘racconto’ della pittura italiana, dall’era paleocristiana sino, sostanzialmente, al primo Novecento. Ma non bisogna pensare che si tratti di una semplice (e semplicistica) esposizione di fatti, nomi e date. Tutt’altro. Sorprende, infatti, cogliere una forte vena personale nei giudizi e nell’impianto generale del racconto. Perché di questo si tratta, un racconto, non una serie di ‘lezioni’. Il tono affabile, per nulla accademico, lascia spazio a considerazioni personali che, per quanto inserite in una tessitura salda e che doveva rispecchiare un impianto didattico, non fanno altro che arricchire il testo.
Colpisce, ad esempio, trovare una lunga citazione da un saggio di Eugène Delacroix in apertura del capitolo dedicato a Raffaello. Un passo che viene poi messo in prospettiva storica, dichiarando subito che dopo una così bella «e persuasiva valutazione, l’esame che faremo noi delle opere dell’Urbinate ci porterà a modulare e a modificare quel pieno consenso». Non si sottrae affatto, Frugoni, a questo tipo di rimodulazioni, ad aggiustare il tiro rispetto a una situazione che, ai suoi occhi, appare più complessa. E per quanto si capisca non dovette catturare gli entusiasmi più forti di Frugoni, egli incluse anche un bel tratto delle vicende primo-novecentesche, dal futurismo al cosiddetto ‘ritorno all’ordine’. È un impegno a «cercare di capire, senza gerarchie e ingiuste condanne, quanto di valevole i pittori oggi operanti, nella loro diuturna ricerca, sanno creare».
Certo non sorprende, per gli anni in cui fu scritto, ritrovare ampi echi dell’idealismo crociano ma, anche in questo caso, emerge una vena del tutto personale, capace di sottolineare dettagli o passaggi delle opere che puntano direttamente al cuore delle cose. Vale poi la pena di sottolineare un altro aspetto preponderante in questo libro, e cioè il fatto che nelle sue pagine l’autore tralasci completamente l’aneddotica, per concentrarsi sulle opere, sullo stile. I punti di riferimento, citati o utilizzati, sono quelli che ci si attenderebbe per un uomo della sua generazione (Frugoni era nato nel 1914): Adolfo Venturi, Pietro Toesca, Matteo Marangoni, ma ve ne sono anche molti altri. Si tratta di referenze rese esplicite dall’acribia di Lomartire, che ha rintracciato tutte le fonti da cui sono tratti i passi inseriti nel testo. E non è stata una pura operazione filologica: si ha così un’idea del ventaglio di letture e di risorse che egli utilizzò per mettere nero su bianco questo percorso nella pittura italiana.
Fa una certa impressione pensare, oggi, al Frugoni trentenne che stende queste dispense. Se giustamente l’immagine preponderante che ne abbiamo è quella del grande storico -– lo storico di Arnaldo da Brescia – questa impresa non potrà però che andare a confermarla e arricchirla. Proprio la curiosità che spinge a muoversi in campi vari e diversi, senza accontentarsi di fermarsi nei porti sicuri, dovette essere uno dei motori che gli permisero di gettarsi in questa impresa. Come scrive la figlia Chiara, si colgono qui non solo «quei tratti, spesso precorritori, della vivace personalità di mio padre, ma anche l’ampiezza inquieta delle sue curiosità di intellettuale sempre pronto a sconfinare dal campo degli interessi più strettamente di mestiere».