A meno di averlo incontrato nelle memorie di Gabriel García Márquez, dove è spesso presente in qualità di sodale e amico fraterno, o in Cent’anni di solitudine, dove figura come uno dei discepoli del «savio catalano», non è facile che i lettori italiani conoscano Álvaro Cepeda Samudio; ma neppure nel suo paese d’origine, in realtà, questa singolare figura di intellettuale ha ricevuto tutta l’attenzione che merita, anche se durante la sua breve vita è stato scrittore, giornalista, poeta e uomo di cinema, (suo è La langosta azul, considerato il primo film colombiano d’avanguardia), dispiegando in ogni campo un talento sostenuto da sconfinate letture e dalla passione per le arti visive.

La natura sperimentale e audace della sua narrativa è stata per lungo tempo oggetto dell’indifferenza o dell’ostilità di una cultura ufficiale messa in discussione dal Gruppo di Barranquilla, del quale Cepeda e García Márquez erano membri e che negli anni Cinquanta avviò il rinnovamento della letteratura, dell’arte e della critica colombiane, fin troppo fedeli alle convenzioni ereditate dal XIX secolo.

La leggenda che avvolge ancora oggi la vita dello scrittore ha attirato l’attenzione più sull’esuberanza e le eccentricità del personaggio che sulla sua opera, come già si intuisce dalla recensione di García Márquez a Todos est a bamos a la espera (magnifico libro d’esordio) pubblicata nel 1954 su «El espectador», in cui si parla soprattutto della tumultuosa personalità di un giovane che «ha qualcosa del camionista e del contrabbandiere di sogni» e che, nonostante abbia trascorso «almeno dieci anni nei cinema e altri dieci nei bar», ha letto tutti i libri possibili e scritto «il miglior libro di racconti mai pubblicato in Colombia».

La prefazione di Gabo
Proprio l’immenso successo di Márquez, protagonista indiscusso del boom, ha infine contribuito a mettere in secondo piano la produzione dell’amico, singolarmente esigua a causa della precoce scomparsa (nato nel 1926 a Barraquilla, Cepeda morì a quarantasei anni), ma anche degli innumerevoli interessi che lo spingevano in direzioni diverse.

Non c’è da stupirsi, dunque, se l’edizione dell’opera omnia di uno scrittore così tenacemente segreto è apparsa solo in anni recenti grazie alla cura di Fabio Rodríguez Amaya, che ha continuato con rara competenza il lavoro di revisione e «restauro» dei testi avviato dall’ispanista Jacques Gilard, il cui frutto è ora parte della Colección Archivos pubblicata da Alfaguara per conto dell’Unesco e che include, oltre alle due antologie di racconti e all’unico romanzo di Cepeda, saggi di specialisti, immagini, documenti e materiali d’archivio. Proprio a questa impresa critica ed editoriale, che consente di leggere per la prima volta l’autore nella sua interezza e di inquadrarlo in un preciso contesto, si rifà la versione italiana di La casa grande (traduzione di Alessandro Secomandi, Castelvecchi, pp.164, € 17,50) corredata da una presentazione di Rodríguez Amaya che contiene quella breve e densa di García Márquez per la prima edizione in lingua originale del 1967.

Entrambi i prefatori sottolineano come il romanzo di Cepeda si leghi a un evento storico, il cosiddetto Masacre de las Bananeras avvenuto nel 1928, quando l’esercito colombiano mise sanguinosamente fine allo sciopero dei lavoratori impiegati nelle piantagioni della United Fruit, la compagnia nordamericana alla quale, sin dalla fine del diciannovesimo secolo, il governo colombiano aveva regalato vasti territori e privilegi tali da renderla «uno stato nello stato». Il fatto che la strage sia raccontata anche in Cent’anni di solitudine (pubblicato un anno dopo La casa grande) e che nei due romanzi appaiano famiglie patriarcali segnate dall’isolamento e dall’incesto, testimonia certo la comunanza di interessi tra i due scrittori, ma non consente di ipotizzare una qualche affinità fra testi che sono profondamente diversi, al di là della loro spiccata qualità innovatrice.

Grande conoscitore della letteratura inglese e nordamericana, Cepeda, che aveva assorbito la lezione di Joyce e di Faulkner, rinuncia alla linearità del racconto, compie una diversa scelta di stile in ciascuno dei dieci capitoli e si apre alle più ardite influenze moderniste, rielaborandole a suo modo.

Simile a un mosaico che esige dal lettore l’attenzione necessaria a ricomporne le tessere, La casa grande si affida così a un’insistita frammentazione, voci che narrano la medesima storia da prospettive complementari o contraddittorie, ricordi che divergono inevitabilmente dalla versione ufficiale dei fatti, rappresentata dal tracotante linguaggio di un documento storico inserito nel cuore del romanzo, ovvero l’autentico decreto del generale Cortés Vargas, colui che diede l’ ordine di mitragliare la folla.

Una lingua irriproducibile
Il massacro compiuto dall’esercito in nome e per conto della United Fruit non ci viene restituito, tuttavia, nei toni di esplicita denuncia di un pamphlet, o attraverso i cataloghi di atrocità caratteristici di quel «romanzo della violenza» che associava un ineludibile tema nazionale a una povertà estetica desolante; Cepeda mette in scena i crimini del governo, dei nordamericani, dei militari e dei latifondisti in modo ellittico e indiretto, evocando uno scenario plumbeo e soffocante in cui l’angoscia, il senso di pericolo e il sentimento dell’ingiustizia affiorano, grazie alla somma di dettagli quasi irrilevanti, dalle succinte descrizioni di taglio cinematografico e da dialoghi di estrema asciuttezza, dietro ai quali si intravede la lettura di Hemingway.

La storia collettiva incarnata da contadini e soldati, appartenenti alla medesima classe sociale ma costretti ad affrontarsi, si specchia in quella degli abitanti senza nome della casa grande, tre infelicissime generazioni dominate prima da un Padre implacabile, esponente e simbolo dell’oligarchia bananera, e poi da una sua terribile Figlia ed erede; due fili narrativi che finiscono per intrecciarsi l’uno all’altro, perché a un «fuori» tropicale fatto di canali, pioggia e fango, teatro dello scontro e dell’eccidio, corrisponde il «dentro» claustrofobico della famiglia, un microcosmo che è trasparente metafora dell’esterno. E tra monologhi incrociati, brevi flash, salti temporali a volte oscuri, fuggevoli squarci lirici, la sobria scrittura di Cepeda, di precisione e intensità straordinarie (e proprio per questo, forse, così difficile da restituire in un’altra lingua), ci impartisce quella che García Márquez ha definito «una splendida lezione di trasmutazione poetica», capace di consegnarci l’essenza mitica degli eventi «senza nascondere o mascherare la gravità politica e umana del dramma sociale».