«Il degrado del linguaggio non è un problema di parole, ma deriva da un comportamento pratico», diceva pochi anni fa Vittorio Foa.

E già nel 1977, appena all’inizio della lunga fase regressiva nella quale siamo tuttora immersi, solo l’udito fine di un grande scrittore come Italo Calvino poteva cogliere gli effetti della parola non più operante sulla qualità della politica, sulla qualità, dunque, della democrazia. «Una democrazia – scriveva – vive se la parola è operante. (…) Se la parola giusta non si confonde con la parola ingiusta».

Quando oggi si parla di centrosinistra, senza trattino come invece nella formulazione originaria che presupponeva una sinistra culturalmente e politicamente autonoma, si lascia intendere che quella situazione originaria, non più esistente da decenni, sia in grado di produrre atmosfere positive come pura riproposizione simbolica.

Il centrosinistra ha fatto anche cose buone, ripete Giuliano Pisapia, l’ispiratore di una discontinua continuità (una locuzione «non operante» direbbe ancora Calvino). E per quanto riguarda le cose buone Pisapia insiste particolarmente sulla legge per le unioni civili.

Si tratta dello stesso criterio di giudizio che ci ha accompagnato per decenni a proposito del fascismo che ha realizzato la buona cosa della bonifica delle paludi pontine. Si potrebbe aggiungere, e non si tratta certo di questione di scarsa rilevanza, la fondazione dell’IRI affidata ad una personalità non fascista e di grande competenza come Alberto Beneduce, con la collaborazione di un tecnico-politico di altissimo livello come Donato Menichella, anch’esso un senza tessera.

Fascismo e centrosinistra sono, ovviamente, realtà storiche tra le quali non è possibile stabilire analogie, appartengono ad universi non comunicanti. Hanno invece lo stesso segno quegli approcci interpretativi che scrivono sulla lavagna le cose buone da una parte e quelle cattive dall’altra, senza indagare sulla caratterizzazione fondamentale di fenomeni di lungo periodo che hanno specifiche reti strutturali determinanti.

Il centrosinistra nuovo ha ormai una storia più che ventennale, ed è proprio questa storia, nelle sue strutture determinanti, che non può, non deve, permettere un uso della parola in termini puramente evocativo-allusivi.

Il politicismo generico di sinistra assume come un assioma che il centrosinistra sia per sua natura «progressista», e che un «campo progressista», dunque, non possa prescindere dall’orizzonte del centrosinistra. È paradossale che si cerchi di limitare una totale indeterminatezza terminologica con l’uso di un altro termine che dell’indeterminatezza può quasi considerarsi esemplare: «progressista».

[do action=”quote” autore=”Tony Blair”]Nella nuova politica la differenza tra i «vecchi concetti di destra e sinistra sta nell’apertura o nella chiusura alla globalizzazione»[/do]

Un numero ormai rilevante di studi prova che le culture trasmesse dal centrosinistra, le decisioni veramente qualificanti a proposito del rapporto economia-società, si iscrivono perfettamente nell’orizzonte delineato da Tony Blair agli inizi del millennio. «Nella nuova politica», ebbe a dire, la differenza tra quelli che erano i «vecchi concetti di destra e sinistra (…) sta nell’apertura o nella chiusura alla globalizzazione». Con tutta evidenza Blair usa la parola «globalizzazione» per dare una patina naturalizzante alla forma attuale del processo di accumulazione del capitale.

Dal campo dei progressisti, autorevoli personalità suggeriscono che si tratta ormai di una stagione passata, rispetto alla quale il nuovo centrosinistra deve operare in discontinuità.

Anche in questo caso l’uso terminologico è indicatore importante.

Ebbene quella è stata la stagione in cui si plaudiva all’estensione dell’Ulivo italiano al mondo, quando Clinton (1998) dichiarava che avrebbe incontrato Blair e Prodi per affrontare le «questioni cruciali (…) dell’economia mondiale.

L’anno dopo Clinton, con il plauso dell’Ulivo mondiale, indicava con chiarezza la via per affrontare quei problemi ed abrogava la legge Glass-Steagal voluta da Roosevelt nel 1933 come risposta alla grande crisi del ’29. Roosevelt aveva caratterizzato il New Deal imponendo limiti rigorosi all’attività bancaria speculativa, la sinistra di Clinton, Blair, Prodi, D’Alema caratterizzava il suo nuovo corso aprendo autostrade al finanzkapitalismus.

Usare il termine «stagione» per un lungo periodo di scelte dirimenti convintamente condivise e trasformate in «riforme», significa mettere l’accento su una sorta di inevitabilità meteorologico-astronomica, che non si poteva non subire.

Le leggi dell’economia si subiscono come le leggi della natura.

Forse non è il caso di chiedere autocritiche a quei «progressisti» che per una stagione lunga alcuni lustri hanno operato secondo una precisa cultura politica, una precisa ideologia economica (l’hanno addirittura messa in Costituzione), ma chiedere una riflessione vera è invece necessario. Non so se questo sarà possibile, ma la credibilità della proclamata «discontinuità» dipende proprio dai criteri di giudizio su quel periodo di storia e sui suoi protagonisti.

D’altra parte «discontinuità» è altro termine ambiguo, suggerisce un’uscita morbida da un percorso rispetto al quale non si rifiuta l’eredità sostanziale. Invece quella che serve è proprio una decisa inversione della direzione, con tutto il gradualismo ed il realismo possibili, ma attraverso l’indicazione netta di un itinerario antitetico.

Per ora i «progressisti» non mandano segnali incoraggianti. Civettano con le «primarie di coalizione» con il Pd di Renzi. La sindrome di subalternità è difficile da curare. Unita al tatticismo è malattia mortale in politica.