C’è una realtà parallela, quasi identica alla nostra, in cui il centrodestra italiano stappa champagne a fiumi avendo dimostrato di non essere affatto morto, e di avere anzi tutte le carte in regola per competere alle prossime elezioni politiche con robuste chances di vittoria. In quella realtà la destra unita non solo tallona il centrosinistra di Beppe Sala a Milano ma impensierisce parecchio anche la pentastellata Virginia Raggi a Roma. Rinfrancati dal successo, i leader si scambiano sorrisoni e assicurano che la strategia vincente si ripeterà alle elezioni politiche.

In questa realtà, invece, la destra al ballottaggio romano non c’è perché l’ex cavaliere si è impuntato su un candidato senza chances, e così al posto dei sorrisi è tutto uno scambio di battute taglienti. Giorgia Meloni non la manda a dire: «Ma quale miracolo di Giachetti. E’ Berlusconi che non ha voluto farmi arrivare al ballottaggio per mandarci il candidato del Pd». Più tardi manda al medesimo Silvio un messaggio tanto chiaro quanto intriso di ostilità: «Non dobbiamo stare insieme per forza». La risposta arriva secca da Deborah Bergamini: «Forza Italia è il primo partito del centrodestra e questo è il dato importante». E Antonio Tajani, che a Roma è stato tra i più battaglieri nello sbarrare la strada alla sorella d’Italia, mette subito all’incasso la prova di forza offerta silurandola: «A Roma si è dimostrato che il centrodestra diviso non va da nessuna parte. Senza i moderati la destra non vince».

Non è precisamente il clima ideale per costruire una lista comune. Il leghista Matteo Salvini lo sa e cerca di stemperare: «Si guarda avanti non indietro. Siamo pronti a lanciare la settimana dopo i ballottaggi una proposta aperta per tutti quelli che non vogliono morire renziani. Per Berlusconi il Nazareno non esiste più, ma per qualche uomo azienda e qualche sopravvissuto di Forza Italia invece sì».

Forza Italia, mentre il gran capo valuta l’opportunità di un suo personale intervento, diffonde una nota agrodolce: «Il bilancio, pur con luci e ombre, ci vede soddisfatti. Fi rappresenta da sola circa metà della coalizione». Ora, prosegue la nota «è il momento di lavorara tutti insieme» per vincere i ballottaggi. Ma poi «bisognerà fare una riflessione sugli errori commessi a Roma e Torino». Se le prime righe rivendicano di fatto la guida “moderata” dell’eventuale lista comune, l’ultimo passaggio suona come un’apertura al fronte Meloni-Salvini.

Per giocarsi la partita la destra è condannata a unirsi e lo sa. Ma a renderlo tutt’altro che facile non c’è solo la lacerazione, in realtà molto profonda, provocata dallo sgambetto di Forza Italia a Roma. Complica le cose anche il rapporto di forze che, sul terreno nazionale, è tanto frastagliato da non permettere letture univoche. Fi stravince a Milano, dove incassa un 20% che ha il sapore dei vecchi tempi e dove Mariastella Gelmini batte Salvini nella gara delle preferenze, ma a Roma precipita al 4,2, sotto Sinistra italiana, a Torino al 4,6, a Bologna al 6,2, mentre col 9 va un po’ meglio a Napoli. La Lega manca l’obiettivo di superare Arcore, con un 8% complessivo contro il 10% azzurro. La formazione della Meloni è molto al di sotto, ma a Roma ha conquistato un pesante 12%.

In questo quadro che non permette a nessuno di vantare un’egemonia e che non vede nessuno in grado di ereditare lo scettro di Berlusconi la marcia verso una lista unitaria non sarà una passeggiata.

L’ex sovrano è contento, anche se, dopo aver lungamente soppesato, ha rinviato a oggi una possibile esternazione: erano pronti a mandarlo definitivamente in pensione, invece, abbattendo la sua ex ministra della Gioventù, ha dimostrato di avere ancora qualche cartuccia. Gli basta. Però quando inizieranno le danze per definire la lista unitaria, la tempesta si scatenerà nel suo stesso partito, dove sono in molti a non aver gradito la vittoria di Pirro contro Giorgia a Roma.

Tempi duri attendono una destra numericamente ancora forte. A meno che non si verifichi il miracolo che ora tutti iniziano a credere possibile: una nuova mazzata ai ballottaggi del 19 giugno potrebbe fiaccare ulteriormente Matteo Renzi e aprire la strada a una sua sconfitta nel referendum di ottobre. In quel caso, senza più l’Italicum a impedire le coalizioni, tutto diventerebbe infinitamente più facile.