Un altro passo importante lungo la rotta balcanica l’hanno fatto. Un altro paese è stato attraversato da sud a nord nel lungo cammino verso l’Europa. Alle spalle si sono lasciati la Macedonia, che dopo averli chiusi in gabbia sigillando la sua frontiera con la Grecia, sabato notte ha finalmente fatto marcia indietro permettendogli di arrivare in Serbia, nuova tappa di questo assurdo reality della disperazione.
Del resto non li ferma nessuno. E loro arrivano a migliaia: le autorità di Belgrado hanno contato 23 mila rifugiati nelle ultime due settimane. 7 mila solo nella notte tra sabato e domenica scorsi, quando Skopje ha finalmente riaperto il confine. Arrivano in treno, in autobus (il governo macedone ne ha messi 70 a disposizione) e in taxi. Chi può noleggia una macchina, la carica all’inverosimile di donne, vecchi e bambini e corre verso la nuova frontiera: l’obiettivo adesso è l’Ungheria, la porta dell’Europa, ma è quello più difficile.
In vista della nuova ondata di profughi Budapest sta infatti accelerando la costruzione del muro di 175 chilometri lungo il confine serbo e nei giorni scorsi ha ordinato il trasferimento a sud di alcune migliaia di agenti di polizia. I rifugiati si troveranno così di fronte un muro fatto di acciaio, filo spinato e perfino lamette insieme a un esercito di poliziotti in tenuta antisommossa. Il Paese è «sotto un attacco organizzato», ha detto nei giorni scorsi Janos Lazar, vicepremier del governo di Viktor Orbàn. E, come se non bastasse, per far capire ancora meglio che aria tira per questi disperati in fuga da guerra e dai tagliagole dell’Is ha aggiunto che gli agenti sono stati addestrati per fronteggiare «migranti sempre più aggressivi che arrivano con richieste sempre più decise».
«Europa svegliati!», titolava l’altro giorno un suo editoriale il francese Le Monde ricordando come quella dell’immigrazione sia una crisi che si dipana alle nostre frontiere da più di due anni .«Sotto i nostri occhi ma senza che abbiamo voluto vedere che si aggravava di mese in mese». Chi non fa più finta di non vedere (almeno per ora), e (sempre per ora) sembra muoversi in controcorrente rispetto alle isteria xenofobe di altri Paesi, è propria la Serbia. Anziché chiudersi Belgrado ha aperto le sue porte alle migliaia e migliaia di disperati che in queste ore stanno entrando nel Paese allestendo quattro nuovi centri di accoglienza (due a Presevo e Mirotovac, a sud e due a Kanijia e Subotic, a nord vicino al confine con l’Ungheria). Un altro centro verrà invece aperto nei prossimi giorni nella capitale, lungo l’autostrada per l’aeroporto. Come in Macedonia anche qui a tutti i rifugiati verrà concesso un permesso di soggiorno di 72 ore, rinnovabile, per lasciare il Paese. Nel frattempo sempre nella capitale sono stati aperti dieci punti di assistenza igienica dove i profughi possono trovare toilette e docce per lavarsi, insieme a una centro informazione fornito di rete WiFi dove i profughi possono richiedere notizie su come presentare domanda di asilo e ricevere assistenza legale e psicologica. «La nostra risposta alla crisi migratoria non sono i manganelli o gli ordigni assordanti, né l’erezione di muri», ha commentato il viceministro del lavoro e degli affari sociali Nenad Ivanisevic annunciando per i prossimi giorni un nuovo piano del governo per i migranti. Ivanisevic ha ripetuto un concetto espresso nei giorni scorsi dal premier serbo Aleksandar Vucic, anche lui critico nei confronti di Budapest per la scelta di costruire il muro.
Scelte, quelle serbe, che hanno permesso a Belgrado di incassare i ringraziamenti dell’Unione europea per il modo in cui affronta la crisi migranti, oltre alla promessa di nuovi aiuti economici.
Ieri la questione profughi è stata affrontata anche da un vertice a tre che si è tenuto a Skopje tra i ministri degli esteri di Macedonia, Albania e Bulgaria, che hanno chiesto all’Unione europea una risposta rapida a quanto sta accadendo lungo la rotta balcanica.