La ricorrenza dei cento anni dalla fondazione del partito comunista italiano è stata un’occasione rivelatrice, va detto, per come in tanti hanno in realtà celebrato la fine, non l’inizio, di quel partito (il 3 febbraio saranno 30 anni). Con quel senso che è un misto di sollievo e ricordo di un’esperienza difficile che, alla fine dei conti, è stato un bene per tutti che ci siamo lasciati alle spalle. Anche i più ben disposti – parliamo degli opinionisti e dei commentatori, i politici hanno altro a cui pensare – lo hanno fatto con lo stesso sentimento con il quale si guarda alle fotografie seppiate dei braccianti in rivolta, come per dire «guarda quanto eravamo illusi, con quella miseria nelle facce». È stato bello crederci, ci è stato detto, ora è finalmente finita l’illusione. Sì, quel partito fu «una scuola di alfabetizzazione e di cittadinanza», «una palestra di resistenza al fascismo», «una risorsa democratica nei momenti bui della Repubblica», «una comunità di ideali». Ma quanta condiscendenza!

Certo, la politica ha i suoi tempi e obiettivi, la politica è gestione del concreto, nel quotidiano delle scelte che vanno fatte, al governo come all’opposizione. E qui invece parliamo di storia e, come ci ricordava Susan Sontag, «non c’è nessuno che seriamente pensi che la storia possa prendere la politica sul serio» (e viceversa). Eppure, qui parliamo di una storia che, in barba agli epitaffi e alle ricorrenze, non è mai finita.

Il comunismo – questo giornale ne sa qualcosa, con l’occhiello che reca – nacque e visse come prospettiva di rovesciamento definitivo di una condizione di oppressione di una classe – quella operaia, che abbracciava tutte le altre – che era stata subalterna per secoli, da sempre, anche quando era semplicemente formata da lavoratori che non avevano altra ricchezza se non le proprie braccia, la forza-lavoro.

Furono pensatori, filosofi, intellettuali, non politici, che ci ruminarono sopra e fu quel sommovimento che diede luogo alla rivoluzione francese che diede il là ai Michelet, ai France, ai Babeuf, ai Saint Simon, ai Fourier, agli Owen, finché arrivò il giovane Karl Marx con il suo «18 brumaio» e poi, con l’ancora più giovane Friedrich Engels, con il loro «Manifesto». Che non fu una “pensata” estemporanea, ma voleva dare senso politico ai movimenti operai che già reclamavano diritti e salari dignitosi nei paesi del capitalismo nascente. Lo spettro che si allora aggirava per l’Europa ha poi cambiato facce, si è fatto più maturo, divenne persino cosa concreta con la rivoluzione dei soviet. Si erse a vessillo per gli oppressi di tutto il mondo, degenerò, riapparve in altre spoglie con il Grande timoniere, con Ho Chi Minh, con Che Guevara. Senza mai smettere di spaventare le borghesie capitaliste di tutto il mondo.

E non smise mai di essere fucina di pensieri, divergenti, ribollenti. Quanto fu importante il movimento comunista, e la riflessione dei suoi intellettuali nel mondo, per l’emancipazione degli oppressi, anche quando Stalin prese la via autocratica che porterà ai gulag. Quando Togliatti tornò in Italia per affermare «la via italiana al socialismo» aveva in mente già un’altra cosa, ma con un obiettivo simile (l’emancipazione delle classi subalterne). Questo fece il Pci: aspirare al socialismo lottando per la democrazia progressiva. E quanto fu capace, quel partito, di produrre cultura, dibattito, riflessione (alla faccia del centralismo). Quanto fu ricca quella stagione di idee, dentro e fuori il Pci.

Poi, successe quel che sappiamo e quel partito, lasciato morire per sopraggiunta assenza di causa ultima, non ha lasciato eredi. Ne sono nati due, e poi altri. Uno, il più grande, ha pensato bene di liberarsi dell’eredità considerandola scomoda nella società «liberal». Gli altri, hanno preferito la «testimonianza» di chi guarda l’album di famiglia con la nostalgia dei bei tempi andati.

E gli oppressi? Sono ancora là, non sono più tanto solo operai, ma rider, marginali, laureati senza lavoro, braccianti venuti d’oltremare, ma anche semplici “tecnici”, “impiegati”, lavoratori alienati (si diceva così, un tempo), tutti senza chi li rappresenti. Il partito-successore ha dilapidato il patrimonio, si è accoppiato sconsideratamente e ora rimpiange molte cose, senza sapere quali. Pensava forse che, ora che non doveva più giustificare l’amicizia coi sovietici dei gulag, fosse finita quella cosa che chiamavano «anti-comunismo», un collante perfetto per chi voleva che si lasciasse fare al capitalismo quello che sa fare meglio, profitto sulla pelle degli altri (e se ci va di mezzo il pianeta, tant’è). Si è ritrovato a dover fare i conti con un mostro che è ancora più attrezzato di prima, senza bagaglio teorico e, soprattutto, senza più l’obiettivo di trasformare l’ordine delle cose.

E senza capire che anche oggi, nella post-democrazia della post-verità, dove le masse succubi del «surveillance capitalism» possono andare dietro al pifferaio di turno, avrebbero bisogno di dare un senso alla loro vita molecolarizzata, non questo ritorno all’Ottocento di politici che rendono solo conto dei loro «like», perché non c’è libertà senza giustizia e senza uguaglianza, proprio come allora, proprio come sempre.