Se c’e’ un anniversario della Grande Guerra che non si sta “celebrando” e’ la ritirata di Caporetto, cosi catastrofica da essere diventata espressione metaforica tuttora utilizzata. Alle molte “caporetto” della storia nazionale Davide Ferrario dedica Cento anni, un film che affronta quei capitoli strappati dai libri di storia in quanto scomodi: la Caporetto del 1917, la transizione fascismo-antifascismo, la strage di piazza della Loggia e lo spopolamento, la solitudine rovinosa del Sud. Con un montaggio associativo “alla sovietica” Ferrario mette insieme questi episodi con quattro diversi modi di fare “documentario”, in una dialettica tra i tre strati del film – immagine, sonoro e musica – per rispondere apparentemente alla domanda a cosa servono i morti, e trasformarla alla fine in un accorato “a cosa servono i vivi?” Un modo di fare Storia non certo alla History Channel.

Nel primo episodio immagini degli ossari, orribile ma esplicito termine per significare non morti, non persone, ma ossa donate alla la patria. Il sacrario di Redipuglia, con la retorica scritta “presente” su ogni gradino, a nascondere la tragica assenza di un’intera generazione di giovanissimi sacrificati da generali che non avevano capito che la guerra nel Novecento erano un’altra cosa. Le geometrie marmoree dell’Ara pacis di Medea (Gorizia) nelle quali Mario Brunello suona un canto armeno. Parliamo quindi con Davide Ferrario di alcune di queste sue scelte stilistiche.

D.: Perche’ musica armena?

R.: In effetti doveva esserci Stelutis alplnis [malinconico canto friulano di un morto in guerra], ma mentre ci preparavamo a girare Brunello si e’ messo a suonare questo Havum Havum e ci e’ sembrato perfetto per quel momento e l’abbiamo tenuto.

Vediamo poi la rotta di poveri soldati logorati dalla guerra di trincea che si arrendono perche’ forse sperano che dall’altra parte ci sia da mangiare mentre gli austroungarici sono messi peggio di loro. Rinchiusi negli stessi campi che saranno usati poi nell’olocausto. Flussi di gente disperata come i civili che fuggono davanti agli invasori, o quelli che restano, per difendere il poco che hanno; le donne stuprate e di li’ a un anno, a guerra finita, chi li vuole quei figli del nemico, che finiscono in orfanotrofi speciali. E quelli che sono rimasti vengono guardati con sospetto, considerati dei vigliacchi, dei perdenti e passati per le armi; perche’ sono vivi. Difficile immaginare cosa e’ successo, se non si e’ di quelle parti, come nel mio caso, con la famiglia di mio padre che dalla Bassa friulana e’ fuggita su due carri con masserizie e bimbi in fasce, fino a Ferrara.

D.: Questa memoria cancellata o ignorata emerge sia attraverso immagini di repertorio sia dai testi recitati dagli attori

R. I testi recitati dagli attori (Diana Hobel, Marco Paolini, ecc…) li ho scritti io a partire da ricerche e letture varie, assieme a Giorgio Mastrorocco. Perche’ nel caso di Caporetto non ci sono testimoni, quindi il monologo teatrale funge da voce della memoria. Sono in gioco due retoriche: quella di propaganda delle immagini spettacolari di Maciste alpino, come la sequenza dal vero degli alpini sospesi con le corde sui crepacci, o l’assalto del truce tedesco che vuole violentare la donna. Immagini perfette per la retorica ufficiale, mentre noi volevamo raccontare cosa ha significato Caporetto per i soldati che sono stati presi prigionieri e sono finiti a morire di fame nei campi di prigionia o i civili che sono rimasti, per difendere la loro casa, e che poi sono stati considerati collaborazionisti.

D: Dai monumenti ai caduti si passa a scenari inattesi. Quella frase sui soldati che scendono dalle montagne come rivoli d’acqua dalla breccia di una diga, ci porta infatti al Vajont…

R.: Oltre a cogliere le suggestioni delle riprese, l’idea era quella di raccontare queste caporetto che si ripetono. Il Vajont, la Risiera di San Sabba sono altre sconfitte subite dalla gente. Nel film non si parla della Grande Guerra, della sconfitta militare, ma si racconta la sconfitta di un popolo diviso che cerca sempre un capro espiatorio, invece di cercare di capire. Per esempio di capire come in un anno si passa da Caporetto alla battaglia del Piave e alla vittoria. Forse noi impariamo piu’ dalle sconfitte che dalle vittorie, come ha scritto lo storico Mario Isnenghi.

D: Queste escursioni in altri luoghi “storici” del Friuli Venezia Giulia e l’organizzazione tematica del film suggeriscono interrogativi non solo legati al passato. Sarebbe facile sostituire le immagini dei profughi o dei civili delle zone “liberate” della rotta di Caporetto con Aleppo o Mosul

R.: L’idea di partenza era quella di continuare a ripercorrere la storia d’Italia, di completare la trilogia composta da Piazza Garibaldi e La zuppa del diavolo. Nell’ordine abbiamo girato Brescia, Caporetto e Sud e il raccordo e’ diventato il romanzo del musicista Massimo Zamboni, L’eco di uno sparo, in cui racconta del nonno fascista ucciso dai gappisti nel 1944, e di uno di questi che nel 1961 ha ucciso dall’altro. Una guerra fratricida.

D. L’episodio comincia con una caccia alla lepre nella neve, all’inizio quasi un gioco, finche’ i cacciatori non catturano le bestie e tracotanti esibiscono gli animali dagli occhi vitrei terrorizzati in primo piano.

R.: L’episodio di Zamboni serviva per passare da Caporetto a Brescia, per raccontare il fascismo e la resistenza, ma non con i soliti materiali di repertorio, le sfilate e Mussolini, ma contrapponendo alla storia tragica scritta da Massimo un fascismo quotidiano. Abbiamo scoperto che a Home Movies hanno diversi filmati di quel periodo e scelto questa caccia alla lepre nella neve con un gruppo di uomini vestiti di scuro che catturano le bestiole e le esibiscono come trofei. Lombrosianamente potremmo dire che le loro sono facce da fascisti. Si puo’ capire che uno e’ fascista anche da come fuma.

D: L’episodio di Piazza della Loggia invece e’ girato come un tradizionale documentario di intervista. Tra l’altro forse questo e’ l’episodio piu’ “ottimista” nella rappresentazione della societa’ civile.

R.: Non avevo mai fatto prima film con le teste parlanti ma qui la memoria e’ nel ricordo di queste persone, testimoni o parenti delle vittime.

Ottimismo non so, forse nel senso gramsciano di “pessimismo della ragione, ottimismo della volontà”. Sono 40 anni che questa citta’ elabora il lutto e che il 28 maggio si incontra nella piazza, coi figli e i nipoti che affrontano insieme questa vicenda, al di la’ di colpevoli o processi. Come dice Manlio Milani rispondendo alla nostra domanda “a cosa servono i morti?”

i morti servono a capire perche’ sono morti.” E’ un processo cha implica una memoria comunitaria, trasmessa ai giovani, incluso il ragazzo pakistano che si sente del tutto italiano e che lo racconta con un rap. Un segno di speranza. Capisci come potrebbe essere una nuova Italia.

D.: Arriviamo al quarto episodio: a cosa servono i vivi, oggi?

R.:. In meridione lo spopolamento non e’ solo un disastro antropologico ma attraverso le parole di Franco Arminio si impara che non c’e’ nulla di macabrio nelle rovine, che guardare al passato non puzza di morte. E che e’ inutile angosciarsi per il futuro, che tanto arriva lo stesso. Un’idea che prefigura una via d’uscita. Io a 60 anni non posso immaginarmi un modo di uscirne adesso. Ma e’ possibile invece che ci sia un futuro migliore.

D.: E per quel che riguarda il tuo lavoro, come e’ stato cimentarsi con la regia di un’opera lirica?

R.: Ho fatto la regia de Il borgomastro di Saardam di Donizetti, a Bergamo, ed e’ andata molto bene, ma l’opera e’ stata un’esperienza che e’ capitata.

Ora mi sto occupando di un’installazione per gli spazi delle OGR (Officine Grandi Riparazioni). Qui a Pecetto [il paese sulle colline torinesi, in cui abita ora Ferrario] c’e’ un gruppo di immigrati giovani, che sanno filmare col cellulare meglio di me. Coi loro cellulari hanno ripreso la vita quotidiana da queste parti; ne viene fuori un’immagine del nostro mondo quasi surreale. Un reverse angle, un controcampo inatteso, visto col loro sguardo.

D.: E la scherma?

R.: Ho partecipato ai mondiali Over 60, ma non e’ andata bene, pero’ sto facendo un librettino su scherma e schermo: divertente.

D.: E il cinema?

Col cinema, che e’ in piena crisi antropologica, basta. Faccio solo documentari e installazioni. Noi tutti del Novecento andavamo al cinema con la segreta speranza che un film potesse cambiarci la vita. Adesso i film raccontano solo storie. Ogni narratore dovrebbe essere consapevole dei modi di fruizione del suo lavoro. Una volta entravi in sala e il film ti comandava. Ora il manico del coltello ce l’ha lo spettatore che puo’ alzarsi interrompere andare avanti veloce, guardare il tuo film su qualsiasi supporto. L’autore non ha piu’ nessun controllo. E’ diventato solo un brand.