Domenica la Spagna si è unita agli altri paesi che hanno sperimentato l’esercizio del diritto di voto in piena pandemia. Nel frattempo l’emergenza sanitaria nella comarca del Segrià intorno alla città di Lleida continua. Le due vicende sono intrecciate.

Iniziamo dal voto: si votava in Galizia e in Euskadi (Paesi baschi), dove si sarebbe dovuto votare in aprile se non si fosse stati in pieno lockdown. In entrambi i casi, hanno vinto i partiti al potere, con una bassa affluenza alle urne (in Galizia leggermente più alta che 4 anni fa). In Galizia, per la quarta volta di seguito l’attuale presidente Alberto Núñez Feijóo ha ottenuto una schiacciante maggioranza dei seggi: è ormai una delle pochissime comunità dove si può governare da soli, e una delle poche ancora guidate dal Pp.

Ma il redde rationem con il leader nazionale Pablo Casado arriverà presto: Feijóo ha fatto di tutto per prendere le distanze da stile e politiche del giovane e irruento leader popolare durante la campagna e per collocare il partito ben al centro. Ora nel parlamento di Santiago ci saranno solo 3 partiti: il Pp, il partito socialista che salva i mobili crescendo leggermente in percentuale di voti e soprattutto il Bng, il partito nazionalista galiziano che schizza alla seconda posizione, triplicando quasi i suoi voti. Podemos e Le maree scompaiono dalla mappa politica, vittime delle loro stesse guerre intestine.

Anche in Euskadi si conferma il leader uscente, Íñigo Urkullu, del partito nazionalista basco, che raggiunge un massimo storico di seggi e che oggi governa coi socialisti (che anche qui salvano i mobili guadagnando qualcosina) e che è un alleato chiave di Sánchez a Madrid. EH Bildu, sinistra nazionalista, si mantiene al secondo posto, ma cresce. Anche qui Podemos perde la metà dei voti e dei seggi, così come Pp+Ciudanos (qui, in maniera inedita, assieme), e entra una deputata di Vox.

La questione più inquietante di queste elezioni è che a qualche centinaio di persone positive alla Covid è stato impedito di votare (a meno che non l’avessero già fatto per posta): l’applicazione pratica di questa misura è dubbia (gli scrutatori non erano in possesso dell’elenco degli infetti) ma dal punto di vista costituzionale è una bomba: non c’è precedente per una limitazione del diritto di voto da parte di una amministrazione locale, senza peraltro offrire soluzioni alternative.

E lo scontro fra diritti civili e protezione della salute pubblica si è tornato a vivere anche in Catalogna, dove domenica pomeriggio il Govern di Barcellona ha decretato un mini lockdown di tutta la zona attorno a Lleida dove i casi sono fuori controllo (in Spagna ormai sono più di 100 i focolai, e oltre a Lleida il più preoccupante è a Barcellona: mezzo migliaio di casi nell’ultima settimana). Di fatto voleva che i cittadini del Segrià tornassero a chiudersi in casa. Ma nottetempo una giudice ha annullato la decisione: dice che solo il governo centrale può limitare il diritto di circolazione mediante lo stato d’allarme e che comunque il Govern non ha motivato con dati sufficientemente precisi la gravità della misura. Apriti cielo: il president Torra ha detto che non accetta la decisione giudiziaria chiedendosi perché un governo locale può limitare il diritto di voto e lui non può preservare la salute dei cittadini.

Sia come sia, è chiaro che la Catalogna non è stata all’altezza delle proprie dichiarazioni («se la gestissimo noi, lo faremmo molto meglio», disse memorabile la portavoce del Govern in piena pandemia), senza abbastanza persone per fare il seguimento dei contatti, senza controlli sulle condizioni di lavoro dei lavoratori stagionali e indecisa nel prendere decisioni tempestivamente. Giovedì il governo centrale riunirà le regioni e insieme vareranno un documento guida su come gestire i sempre più numerosi focolai nel caso in cui, come a Lleida, il contagio sfugga di mano. Madrid appoggia la decisione catalana, ma ha scartato di decretare un mini stato d’allarme: la Generalitat ha già gli strumenti, hanno detto.