Erano centinaia di migliaia i sudanesi che ieri, mobilitati dalla Sudanese Professional Association, una coalizione di attivisti, hanno percorso le strade di Khartoum e di altre città del Sudan per dire «no» al colpo di stato militare di lunedì scorso guidato dal generale Abdel Fattah Burhan. Fiumi umani, accompagnati da canti e balli, slogan e lo sventolio di bandiere nazionali, che confermano come la popolazione del paese africano non sia disposta a rinunciare alla «transizione democratica» cominciata con le proteste popolari di due anni fa contro il presidente Omar al Bashir. I militari hanno fatto il possibile per limitare l’afflusso dei manifestanti, anche interrompendo o limitando le comunicazioni telefoniche e internet. Ma non hanno potuto fermare il passaparola.

Per qualche ora la situazione si è mantenuta calma con l’esercito fermo sulle sue postazioni. Poi quando i cortei si sono diretti verso punti considerati strategici, come i ponti sul Nilo che portano al centro di Khartoum, i militari hanno cominciato a sparare facendo diversi feriti. Lo stesso è avvenuto in altre aree. A Omdurman città-gemella della capitale, tre dimostranti sono stati uccisi dal fuoco dei soldati nei pressi del palazzo del Parlamento. Secondo il Comitato indipendente dei medici sudanesi, a sparare sarebbero state «milizie del consiglio militare golpista». Spari e lanci di candelotti di gas lacrimogeni anche sulla strada 60 a Khartoum, nell’area di Buri e sulla Nile Street a Khartoum vicino al ponte Al Manshiya. Decine di migliaia di persone sono scese in strada inoltre a Bahri, a nord della capitale. Hanno scandito slogan a favore del ripristino del governo civile sciolto dai militari dopo aver arrestato il primo ministro Abdalla Hamdok, e diversi suoi ministri, e aver sospeso le disposizioni del documento costituzionale che delinea la transizione politica in Sudan. In totale da lunedì scorso il fuoco dell’esercito avrebbe fatto tra 11 e 14 morti e oltre 200 feriti, di cui decine ieri da spari o intossicato dai gas lacrimogeni.

Tutto il Sudan è «in arresto» ha protestato la ministra degli esteri Mariam al Mahdi, rimossa ma non arrestata dai golpisti, in un’intervista all’agenzia Afp. «Siamo tutti in arresto in queste condizioni poiché non possiamo più comunicare tra di noi», ha spiegato al Mahdi, figura di spicco dell’Umma Party, il più grande del Sudan, e figlia di Sadiq al Mahdi, l’ultimo leader sudanese democraticamente eletto ed estromesso da Omar al Bashir nel 1989. «Il golpe del 25 ottobre» ha aggiunto «è stato un tradimento gravissimo. Non ho avuto discussioni con nessuno di loro (i militari, ndr) e non lo farò mai». Pare che il generale al Burhan, anche per salvare la faccia, voglia coinvolgere il premier Hamdok, di fatto agli arresti domiciliari, nella formazione di un nuovo governo, con la partecipazione di alcuni dei suoi ministri. Esecutivo che, comunque, sarebbe sotto il controllo dei militari e non avrebbe alcuna autonomia.

Allo stesso tempo il generale golpista potrebbe scegliere di andare avanti con i suoi fedelissimi, forte dell’appoggio silenzioso dietro le quinte che gli assicurano alcuni paesi, non solo arabi. I golpisti, non è un mistero, sono sostenuti dalla troika araba: Egitto, Arabia Saudita ed Emirati che hanno rafforzato l’esercito sudanese fin dal giorno successivo alla caduta di al Bashir – vicino al movimento dei Fratelli musulmani considerati «terroristi» dal Cairo, Riyadh e Abu Dhabi – allo scopo di rimettere in questione i rapporti di forza nel Corno d’Africa troppo sbilanciati a favore dell’alleanza avversaria turco-qatariota. Anche la Russia guarda con favore alla mossa fatta da Burhan. Quest’ultimo potrebbe dare a Mosca la possibilità di consolidare la sua presenza in un’area geografica di grande valore strategico. La Russia dal Sudan qualche mese fa aveva ottenuto il via libera a una base logistica sul Mar Rosso ma il parlamento di Khartum non ha mai approvato l’accordo.