Benvenuto Cellini, “Autoritratto”, 1540-43?, Torino, Biblioteca Reale

 

Almeno fino alla metà del Novecento, insospettabili uomini di cultura si sono appassionati come ragazzi a leggere la Vita di Benvenuto Cellini, l’autobiografia stesa tra il 1558 e il 1562 circa, quando, ormai maturo (era nato nel 1500), l’orafo scultore, divorato da un’indole saturnina che lo tormentava, era riuscito a fabbricare almeno il monumento cartaceo di sé stesso. La Vita, rimasta inedita, sarebbe stata pubblicata solo nel 1728 per conoscere nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento grande fortuna europea, amplificata dal precoce interesse tributatole da Goethe. Tra i tanti, un lettore imprevisto è stato il filosofo-antropologo Claude Lévi-Strauss che, volendo introdurre l’ambiente forestale amazzonico dei suoi Tristi Tropici del 1955, muove dalle coste dell’oceano e, in modo inopinato, prende avvio proprio da un appiglio celliniano: «fin dall’infanzia il mare mi ha ispirato sentimenti contrastanti (…). Come Benvenuto Cellini, il quale mi attrae più che i maestri del Quattrocento, mi piace errare sulla spiaggia abbandonata dalla marea (…) raccogliendo ciottoli bucati, conchiglie la cui geometria è stata deformata dall’usura, o radici di rosaio a forma di chimera».
Nel tempo del definitivo risarcimento critico del Manierismo – Lévi-Strauss sottolinea che Cellini gli piace più che non «i maestri del Quattrocento» –, si rievoca il momento in cui Benvenuto, convalescente dopo aver contratto la peste in forma leggera nella Roma di Clemente VII de’ Medici, si sposta a Cerveteri e da qui, con un suo «cavallino salvatico (…) grande come un grande orsachio», «ogni giorno soletto me ne andavo in sul lito del mare, et quivi smontavo, caricandomi di più diversi sassolini, chiociolette e nichi (conchiglie, ndr) rari e bellissimi». Il ventiquattrenne raccoglitore di nicchiolini (l’immagine si adatta bene a questo agosto di pandemia) è un artista fatto: il padre lo avrebbe voluto musicista, ma la vocazione lo aveva portato a diventare orafo, già passato dalla produzione di minuterie (gioielli, anche per abiti civili e liturgici) alle grosserie (suppellettili di lusso come bacili, brocche e saliere). Una volta guarito, si sarebbe a breve specializzato pure nel coniare monete e nella fusione di medaglie-ritratto e di sigilli, grandi quanto la «mano d’un fanciullo di dieci anni in circa» (è lui stesso a dirlo, nel suo Trattato dell’Oreficeria del 1568).
Oggetti come medaglie e sigilli (oggi per lo più sopravvissuti nell’impronta, non nell’originale metallico), attestano il livello sociale dei committenti di Benvenuto (cardinali, marchesi, duchi; poi papi, re e granduchi), che – come i suoi migliori coetanei – era cresciuto studiando l’antico e lo stile dei grandi: si deve all’estro di Cellini la celebre definizione «scuola del mondo» coniata per i cartoni di Leonardo e Michelangelo per le Battaglie di Anghiari e di Cascina, letteralmente fatti a pezzi dai giovani desiderosi di imparare il disegno. Se Michelangelo resta per sempre un faro, nella città dei papi Cellini fa brigata con gli eredi di Raffaello (Perin del Vaga, Penni, per qualche tempo Giulio Romano) e con Rosso Fiorentino in quel clima da «dolce vita» (la definizione è di André Chastel) che precede di poco il Sacco di Roma (1527), quando proprio in quel milieu prende avvio il Manierismo, lo stile artefatto, virtuosistico, elegante fino allo sfinimento che John Shearman ha felicemente qualificato stylish-style.
La frenesia romana durerà poco, interrotta dal Sacco perpetrato dalle truppe imperiali allo sbando; nella sua Vita, composta trent’anni dopo i fatti, Cellini lo descriverà con ineguagliabile verve, autoattribuendosi un ruolo che anticipa quello di un D’Artagnan (e Dumas sarà un lettore dell’autobiografia dell’italiano, che immortalerà in un romanzo del 1843, Ascanio, precedente di un anno I tre moschettieri): rissoso e tracotante, al tempo del Sacco, l’orafo aveva già alle spalle risse e omicidi, stupri, vendette, fughe e imboscate, avendo scampato la prigione che, invece, lo attenderà in sèguito.
Proprio la doppia faccia di Cellini, grande artista fuorviato da un carattere «litigioso e manesco», attirerà sulla Vita un altro lettore inatteso come Piero Calamandrei, il giurista antifascista, uno dei padri Costituenti della Repubblica, infaticabile dagli anni trenta fino alla morte (1956) nel ricostruire le vicende giudiziarie e umane di Benvenuto, distanziamento intellettuale lenitivo rispetto ai tanti oneri che doveva fronteggiare.
Gli anni successivi al Sacco vedono Cellini muoversi inappagato tra Roma, Napoli, Firenze, Venezia e Ferrara, ricercato produttore di medaglie, monete e gioielli, sempre incapace di conformarsi al modello di artista cortigiano in auge. L’unico rapporto che sa costruirsi è con il cardinale Ippolito d’Este, figlio del duca Alfonso e di Lucrezia Borgia, più volte sconfitto nei conclavi ma ben introdotto alla corte dei Valois, dove Benvenuto è accolto nel 1537, e poi per cinque anni dal 1540. Tra Parigi e Fontainebleau, appena ornata con la Galleria-capolavoro di Rosso Fiorentino, Cellini si aspetta da Francesco I una deferenza simile a quella già riservata a Leonardo; viene incaricato di eseguire statue-reggitorcia d’argento life-size per la Galleria, e intanto attende alla Saliera d’oro, che per fortuna si è conservata (è a Vienna, al Kunsthistorisches Museum). La microscultura da tavola presenta la Terra, Gea (generatrice del pepe), che affronta Nettuno, il Mare, fonte del sale: le due allungate figure si intrecciano su una base abitata da creature terrestri e acquatiche, tra le quali si distinguono dei nicchiolini d’oro.
Ed è in Francia che Cellini perviene anche alla mascroscultura: realizza la lunetta-bassorilievo in bronzo con una sinuosa Ninfa, ora al Louvre, per ornare una porta bellifontana, animandola con cani, cervi e cinghiali che richiamano la funzione del castello, dove tuttavia il re cacciatore non vedrà soddisfatta quasi nessuna commissione affidata all’italiano, via via perso dietro altri progetti irrealizzabili.
Il ripiegamento in patria, a Firenze, diventa obbligatorio. Qui, molti artisti rivaleggiano per ottenere i favori del duca Cosimo, ma la buona sorte arride a Cellini, che ottiene la commissione del Perseo, da porre in piazza della Signoria vicino al David marmoreo di Michelangelo e alla Giuditta bronzea di Donatello. Benvenuto si sente in gara con il passato e con il presente; testa le tecniche di fusione realizzando il Saluki, una placca raffigurante il levriero persiano da caccia allora ricercato come un bene di lusso e, secondo quanto narra nella Vita, anche il Busto del duca Cosimo (entrambi a Firenze, Bargello), che in realtà scaturisce dalla competizione con il detestato Baccio Bandinelli. Intanto, predisposti modelli vari, Cellini pensa a generare il «mio Perseo» – così lo chiama, come un figlio, in molti passi della Vita –, sul quale si diffonde raggiungendo il climax nel racconto dell’eroica fusione a cera persa.
Perseo trionfante su Medusa, il cui sangue bronzeo sprizza dal capo e dal corpo decapitato, simboleggia la vittoria assolutistica dei Medici sui nemici, i repubblicani in primo luogo: scoperto solo nel 1554, erto su una base-ara in marmo con statue e bassorilievi (un vero capolavoro dello stylish-style), sarà subito ammirato senza tuttavia propiziare l’ascesa di Cellini tra i rivali.
Per questo motivo, nel 1558, un deluso ma indomito Benvenuto – che ormai si cimenta anche con il marmo– provvederà a sublimare la propria esistenza, arrancante nella quotidianità, mediante l’autobiografia, oggi frequentata più dagli italianisti che non dagli storici dell’arte o dal pubblico dei lettori comuni. Ed è un peccato: quindici anni fa, gli studenti di Beni Culturali della Statale di Milano che l’hanno letta per intero, non in riduzione linguisticamente aggiornata bensì nell’originale dell’edizione «BUR», si erano appassionati come i lettori delle tante generazioni che li avevano preceduti; uno di loro mi ha raccontato di averla pure consigliata ad altri, compresa sua zia.