Celestia è il nome futuro di una Venezia sognata, un richiamo cromatico alle dimensioni acquatiche ed eteree dello spazio lagunare, che è in effetti il setting scelto da Manuele Fior per il suo nuovo, atteso romanzo (per le edizioni Oblomov); un isolotto popolato in una grande laguna rimasta deserta, separato dalla terra ferma durante un bellicoso antefatto e abitato da una collettività in maschera, di dubbia morale, e da un ristrettissimo circolo di telèpati. Con questi ingredienti da romanzo puro, una veste grafica che tiene insieme infinite citazioni e una libertà narrativa senza precedenti, il libro diventa in questi giorni di disastrosa calamità, un omaggio alla città lagunare.

«Celestia» arriva dopo «L’Intervista», del 2013, un romanzo fondamentale per il tuo percorso. Qui troviamo di nuovo Dora, la protagonista de «L’Intervista». Ma «Celestia» non è il sequel naturale.

È un seguito molto libero, non è un numero due; è un universo espanso, ma non secondo le logiche della serialità. Ho voluto riutilizzare Dora, che poteva esprimere altro, aveva grandi potenzialità. Poi è arrivato Pierrot, un personaggio nuovo, non preventivato. L’Intervista aveva ancora un ancoraggio abbastanza solido alla realtà di tutti i giorni, appena spostato in avanti. In Celestia ho preferito liberare la narrazione e il disegno il più possibile. La componente genetica del fantastico nel fumetto da Winsor McCay in poi, ha un valore fondativo, non paragonabile a quella del cinema, per cui mi sembrava giusto prendere questo elemento e farlo correre.

«L’intervista» che aveva già segnato una svolta verso il fantastico, era però in bianco e nero. Qua i colori sono moltissimi, una palette sorprendentemente varia e ragionata.
Sì, ne L’Intervista avevo bisogno di un bianco e nero plastico, ero molto influenzato dalla fotografia di Francesca Woodman, Cindy Sherman, dal cinema di Michelangelo Antonioni. Mi sono servito della luce per svelare i personaggi, per far uscire le cose dall’ombra. In Celestia invece volevo riportare in immagini una Venezia prerinascimentale, quella bizantina dei mosaici, dei bagliori nell’oscurità che precedono il bianco del Rinascimento. La Venezia descritta ne Le pietre di Venezia, da Ruskin che la immaginava sorgere dall’oscurità della laguna; una città che è anche una fortificazione, un bastione naturale. Hugo Pratt raccontava storie di portoni veneziani che si aprivano con una parola in ebraico: si tratta di una componente magica che volevo declinare a mio modo…e il libro comincia con parole d’ordine che aprono porte. La tecnica è quella della gouache che uso da molti anni, e la tempera, con le importanti variazioni cromatiche che menzioni e che saranno più evidenti nel secondo libro, dove volevo che la luce e i colori bruciassero la retina. Ho utilizzato tutte le tecniche che conosco, poiché voglio spremerle fino in fondo e ci sono ancora dei margini prima di estinguerle.

In «Celestia» Dora sviluppa una capacità telepatica, che è forse un aggravarsi del suo stato allucinatorio, e Pierrot evita il gruppo di telepati guidati da suo padre, il Dott. Vivaldi, per vivere una vita da poeta disperato. I protagonisti sono due outsider…
Questa è la caratteristica dei miei personaggi principali: il fatto di non essere ascrivibili a nessuna categoria. Con Pierrot inoltre crea una dicotomia tra chi accetta questi poteri e chi li rifugge. Fa parte della mia riflessione sul cambio di generazione, mi piace raccontare il passaggio di testimone generazionale. Nel tomo 2 per esempio i bambini hanno una grande importanza. Nella telepatia i bambini sono molto potenti. Non dispongono del linguaggio verbale, conservano una potenza comunicativa altra. L’avvicendarsi delle età, il vecchio, il giovane e il bambino, nel libro è importante; così il piccolo diventa uno snodo, il segno di una nuova tappa evolutiva. Come l’uomo che da quattro zampe si è messo su due piedi, chi lo sa, i bambini potrebbero sviluppare un potere nuovo. Io non sono un esoterista, ma quando faccio fumetti sono un assoluto assertore dell’esistenza della telepatia, per esempio. Altrimenti non potrei raccontare storie.

Perché Venezia? È una città magica e comunque isolata?

Io ho vissuto a Venezia, ho studiato lì Architettura ed è passato abbastanza tempo da poterla trasfigurare, idealizzandola. È un vissuto lontano, ma tornando a Venezia, nonostante l’appiattimento da meta del turismo mondiale (e la situazione attuale di drammatica emergenza, ndr), la città conserva una sua singolarità, è un’enclave; nata per i rifugiati, gente che scappava dalle invasioni- non negli orridi termini in cui se ne parla adesso. Ho ipotizzato la nascita di una comunità isolata, di Celestia, come conseguenza di una grande invasione. Le migrazioni sono un tema centrale nell’attualità e mi sembrava bello ridare una chance a questa piccola Cuba italiana, che è stata anche una New York occidentale, renderla di nuovo uno snodo geografico ed evolutivo. Una volta abbattuto il ponte che la legava alla terra ferma, attorno a Venezia la società si è incastellata come nel medioevo, nei castelli fantastici che vedremo meglio nel tomo due e Celestia è divenuta un luogo dove vige un’anarchia molto feconda, che può portare qualcosa di nuovo.

La telepatia, il sogno, il ricordo, sono gli ingredienti del tuo romanzo e sono tutti movimenti del pensiero su cui non abbiamo molto controllo. Che importanza ha l’inconscio nella tua narrazione?
Il tema dell’inconscio è centrale nel mio lavoro. Concepisco il fumetto come un linguaggio preferenziale per far riemergere l’inconscio. Quando Freud ha analizzato la novella Gradiva di Jensen, basata su un sogno, ha inaugurato la stagione della psicoanalisi applicata a un prodotto letterario. Dimostrava che l’atto creativo è molto simile all’atto psicanalitico, nel far riaffiorare materiale dal subconscio.

Sono temi a me carissimi, quando invento le storie: più avanzo nelle narrazioni e più ho l’impressione che la storia non sia dentro di me, ma fuori, e che io debba dissotterrarla, che non sia io a crearle, ma che debba portarla alla luce.
Soprattutto alla fine, quando tutto si deve chiudere, c’è una specie di grande necessità e ho l’illusione che la storia esista già, con i suoi colori e le sue forme.
Mi sembra che questo libro spinga in avanti elementi di sensualità e violenza… Sì, e avrà un finale molto violento. È un fumetto d’azione e ho voluto usare tutti gli elementi del fumetto: le fughe, le vertigini. La mia vita al tavolo da disegno è molto tranquilla, per cui le vertigini, ad esempio, sono qualcosa di importante, che da uno spessore psicologico al narrato e che fa vivere il lettore. Il libro è una escalation di azione, un crescendo di tensione. Non avrei mai immaginato di poter usare i supereroi- la citazione degli X Men, nei ragazzi con i superpoteri riuniti attorno al professore- e di farli convivere con Mattotti e Brodsky. Ho messo insieme tutto ciò che il fumetto mi permette di fare, e ho fatto in Celestia assolutamente tutto quello che volevo.