Capelli biondi tenuti su da un fermaglio e occhi azzurri, Celeste Mac Dougall posa la birra e sorride, chiedendoti un attimo dopo se stia «già parlando troppo». Siamo a Roma, nello spazio autogestito Communia.

Celeste vive in Argentina ma ora arriva dalla Spagna. Anche in Spagna, le donne hanno aderito alla campagna «Ni una menos», partita dall’Argentina. Celeste è stata fra quelle che hanno messo in moto lo sciopero globale delle donne.

Com’è cominciata?

Tutto ha avuto inizio dal femminicidio di Lucia Pérez, una ragazza argentina di 16 anni, violentata e torturata fino alla morte. C’è stata una forte reazione, di proporzioni inaspettate. Donne diverse sono scese in piazza, il movimento è cresciuto con la consegna Ni una menos. Abbiamo detto: «Se la nostra vita non vale, noi ci fermiamo». E siamo arrivate allo sciopero globale.

Come siete organizzate?

Non ci sono leader, si decide per consenso, e se il consenso non c’è non si fa niente, ma quando si raggiunge, poi si agisce. È una modalità totalmente diversa da quella che siamo abituate a praticare nei partiti, nelle organizzazioni di sinistra, diversa dal bisogno di contarsi subito, di fare assemblee generali. Per riconoscerci ci siamo vestite di nero. Quando due di noi s’incontravano nella metropolitana o per strada, ci guardavamo: per riconoscerci e farci riconoscere. In Argentina, il movimento femminista è cresciuto negli anni, da 31 anni organizziamo un incontro nazionale. L’ultima volta, a Rosario, eravamo 80.000. Il femminismo non è più ai margini.

Che rapporti avete con le istituzioni e con le organizzazioni della sinistra?

Di totale autonomia. Io vengo da un piccolo partito trotzkista e ho anche partecipato come candidata alle elezioni comunali, ma il movimento femminista è circolare e autorganizzato. Il governo di Cristina Kirchner ha fatto molte cose buone anche per le donne, che vanno difese, ma lei non è mai stata femminista. Con il movimento femminista sono scesi in piazza anche alcuni sindacati, ma la nostra agenda e le nostre pratiche sono quelle a cui accennavo prima.

Da anni, le donne latinoamericane guidano le lotte di massa e, in alcuni paesi come il Venezuela, hanno ottenuto molto, portando avanti azioni a livello continentale e globale. Pagano anche un prezzo: aumentano i femminicidi politici. Come vede l’elezione diTrump negli Usa e Macri in Argentina?

Sono stata qualche anno fa in Venezuela, dai circoli bolivariani. La situazione, adesso, è più difficile. Penso, però, che la crisi è sempre un’occasione perché produce delle reazioni. Anche Trump può essere un’occcasione. Berta Caceres è stata uccisa, Milagro Sala è in carcere. Da sempre, il corpo delle donne è materia di scontro, territorio in disputa. A ogni femminicidio il patriarcato si rifonda, ma sorge un movimento di sorellanza che nasce dall’amore. E lo sovverte.