Con Anatomia del miracolo si era approssimata all’ingresso di una miniera di materia oscura e incandescente: il culto atavico della madonna dell’Arco, col suo dolore abissale e i suoi lividi, la ritualità forsennata dei fedeli e il mare magnum di una città come Napoli. A quel mondo così affascinante e esplosivo, ma anche così distante da lei, Alessandra Celesia, da valdostana emigrata a Parigi da vent’anni, si era confrontata dialogando con tre donne: Giusy, antropologa atea vissuta a un passo dal santuario, travagliata da domande incessanti sulla fede e sulla disabilità che la costringe alla sedia a rotelle; Fabiana, transessuale che vive facendo la prostituta e che vede il culto della madonna come un tutt’uno con la sua vita, e Sue, pianista coreana cattolica, desiderosa di fermarsi in Italia per sempre.
Il film, in questi giorni in sala, fu presentato lo scorso anno al Festival dei Popoli, dove qualche edizione fa Celesia aveva vinto con Le libraire de Belfast, e dove quest’anno con Heidi Project, sorprendente poetica performance dal vivo tra documentario e teatro, si è calata a viso aperto nella miniera di cui sopra.
Voce narrante e corpo in scena, per montaggio cinematografico a vista con pc, ha scoperto così che l’eclissi interiore “che ferma la vita” si può dire a voce alta. Non solo. Sulle tracce di Heidi di Johanna Spyri (classico per lei amatissimo), parte per un viaggio proustiano in cerca del gusto della neve provato da bambina, delle carote e delle camminate di sua nonna. E come Heidi deperiva a Francoforte e rinasceva nella sua foresta, Alessandra tra alberi innevati apre le ali e non teme di guardare in macchina. E, sempre come Heidi con Clara, non è sola: con lei Adélys, sul palco pianista e voce struggente di canzoni in francese di cui è autrice (mentre la messa in scena è di Adrien Faucheux); nel documentario compagna di dolore e di avventura, da Parigi alla Lapponia, passando per Cracovia in cerca degli sciamani e dell’anima volata via dal corpo … “Sono potente dentro, sono potente dentro”.
Le motivazioni iniziali e la genesi di Anatomia del miracolo.
Il primo impulso è venuto da un amico la cui moglie napoletana aveva un nonno fedele della madonna dell’Arco. Così, prima con una curiosità turistica, sono scesa a Napoli. Poi però la processione del lunedì in Albis mi ha folgorato, non solo per i corpi che si trascinano e per la credenza al di là di quello che noi “nordici” possiamo capire, ma per la ferita della madonna sulla guancia. Il tema delle ferite, di come possano diventare gloriose, è una costante dei miei lavori e un simbolo fortissimo.
So che non c’era nulla di scritto. Come è emersa questa struttura che mette in rilievo tre figure mantenendo però una attenzione verso la coralità?
Il culto è un fenomeno di massa, quindi era la collettività che andava raccontata. D’altra parte, ho sentito che dovevo estrarre con lo scalpellino alcune figure. E poi ho cercato dei personaggi femminili perché volevo che fossero tre Marie, tre facce di una stesso volto.
Puoi darci qualche nota su ognuna di queste relazioni?
Giusy l’ho incontrata proprio nel momento in cui aveva più bisogno di esternare la sua rabbia verso un sistema che mette la persona con disabilità nella posizione di chi si deve per forza inginocchiare e aspettare il miracolo. Si chiede, perché come donna disabile del sud devo necessariamente credere?
Ha avuto delle resistenze rispetto al dirsi pubblicamente?
Inizialmente sì. Aveva paura che raccontassi la disabilità in modo pietistico. I suoi comprensibili timori si sono dissipati quando abbiamo cominciato a girare. Ti do un dettaglio. Mi aveva imposto di non riprenderle le mani che sua madre le ha sempre detto di nascondere. Io a un certo punto ho infranto questo divieto nella scena in cui raccoglie i frutti. Si è accorta che le sue mani possono essere magnifiche.
E con Fabiana come è andata?
Anche lei all’inizio non voleva saperne. Ho dovuto farle la corte. Temeva che volessi fare un reality sulla prostituta che crede. Alla fine abbiamo fatto un patto di fuoco, le ho promesso che avrei mostrato solo la sua parte religiosa e mai quella lavorativa. Poi però, dopo aver girato le scene con la nipotina, dove racconta della sua infanzia, si è accorta che il suo personaggio aveva acquisito uno spessore poetico e mi ha detto, domani ti porto sul lavoro. Lei va fiera di quello che fa, ma trovo cruciale il momento in cui il personaggio diventa scrittore con te della sua storia.
Con Sue e la sua ricerca del battito esistenziale di Whitman affiorano note di Heidi Project. C’è una tua identificazione in lei?
Sì. Ne ho avuto conferma quando mi ha parlato di Dostoevskij. Avevo fatto uno spettacolo su Delitto e castigo. Questa bambina allevata dalla nonna nella bambagia, che scopre attraverso il libro cosa è il mondo, mi fa una tenerezza infinita.
Ho letto che il tuo riferimento è stato il cinema danese. Penso alla materia così incandescente che hai trattato: una questione di contrari?
Avevo il terrore di tradire Napoli. Dovevo arginare questo suo troppo, per non fermarmi alla narrazione antropologica, e andare al cuore. Per questo mi sono appigliata al cinema danese. A Festen, e a Italian for beginners di Lone Scherfig, un film corale, in cui i personaggi, con vite al collasso, si ritrovano per un corso di italiano e giungono a una catarsi collettiva. Ho provato a restare scientifica fredda, andando col bisturi – da qui anche il titolo del film – tanto sapevo che non ci sarei riuscita totalmente. Anche le inquadrature, mai un campo largo, sono per evitare che con i muri scrostati possa entrare lo stereotipo della città.
Con Heidi project sei andata oltre per immergerti in prima persona in una storia che oltretutto muove dal buio della depressione, ancora un tabù.
Ho fatto quello che con Anatomia del miracolo non ho avuto il coraggio di fare. Lì il nucleo sono le ferite, qui è il male oscuro che però è una condizione dell’esistenza. Nei lavori precedenti mi ero sempre nascosta dietro altri personaggi, ma con Heidi …, che nasce dal mio desiderio di tornare al teatro dopo questi anni di cinema, ho sentito che dovevo essere in scena per testimoniare allo spettatore che si possono attraversare queste zone oscure.
In questa discesa nel pozzo non sei sola: come nel teatro classico, l’eroina ha la sua confidente. Adélys assaggia la tua neve.
In realtà ci siamo conosciute perché era l’insegnante di canto di mia figlia. A un suo concerto rimasi folgorata da un pezzo che aveva composto per la morte del padre. Il dolore la rende più matura della sua età – è dell’89 -. In più si chiama Adelaide, come la signorina Rottermaier vuole sia chiamata Heidi a Francoforte… Adélys mi ha accompagnato con discrezione. Anche per lei è stato un viaggio terapeutico.
Sembra siate amiche da tantissimo tempo.
Prima delle riprese abbiamo registrato ore di conversazione, raccontandoci cose mai dette ad altri. In più la natura del progetto, con solo il piccolissimo fondo datoci dalla Val d’Aosta, ci ha reso libere di fare follie insieme, come quando siamo partite per la Lapponia. Con lei, tutta un’altra generazione (non ha conosciuto Heidi, il libro e il cartone animato, come la nostra), mi sono sentita una ragazzina.
Tornando alle tracce interiori del dolore, lavori sul sottile confine tra il non rinnegarle e il trasformarle.
Accettiamo che la superficie del ghiaccio sotto di noi scricchioli e scricchiolerà sempre, questo però non può impedirci di attraversare il lago. Io, che non credo a niente, ho visto un’amica di mia nonna fermare il sangue e gli sciamani mi hanno raccontato che la neve può essere usata per questo scopo. Come se avesse la capacità di rimarginare. Ecco il filo che attraversa questi lavori: la rigenerazione delle ferite, per andare verso la luce.