Se mai si dovesse ancora ribadire la rilevanza del pensiero-azione di Germano Celant e l’incommensurabilità della sua perdita, basti fissare due steps emblematici della sua rizomatica opera omnia, elaborata grazie alla poliedricità del suo profilo (storico, critico, curatore e teorico dell’arte) che ne attestano l’ingegno e la molteplicità del suo fare. L’importanza del testo, la scrittura del libro (e che oggi, in una società turbo-consumistica, dedita alla velocità dello statement, viene trascurata quasi con imperiosa superficialità) a cui Celant si è dedicato per anni, si muoveva in parallelo alla vitalità multiforme delle mostre realizzate e che si sono avventurate elasticamente con uno sguardo asimmetrico tra arte, moda, musica.

Del primo rizoma basta scorrere la complessità e lungimiranza del profetico libro Artmakers. Arte, architettura, fotografia, danza e musica negli Stati Uniti del 1984, Feltrinelli, con la bellissima cover di Robert Longo in Strong in Love, scritto quando insegnava Storia dell’arte europea all’Università di California, e in cui riassumeva il processo di trasformazione del display artistico, riflettendo soprattutto sullo slittamento del ruolo: da artista a artmaker, lavoratore dell’arte che immette la sua produzione nel flusso di un sistema economico in espansione dagli anni Sessanta agli anni Ottanta.

Il germe artmakers
Il saggio, oggi introvabile, introduce in un orizzonte che azzera gli steccati tra discipline, permeandole e incarnandole tra esse, quasi sfiorando l’attitudine e il peso che oggi rappresentano i Cultural Studies e i Visual Studies. Artmakers, sconfinava tra le categorie, ondivagando tra la Pop Art, l’arte concettuale, la Minimal e la Land, passando per la Performance e dedicando pagine bellissime alla danza, slittando nella architettura e planando nella fotografia, il video e il graffitismo. Lucidamente analitico, il lavoro di Celant ci conduceva in un viaggio sinaptico che riportava il soffio delle ricerche di Trisha Brown, Meredith Monk, John Cage e Merce Cunningham, Robert Wilson e Lucinda Childs, Charlemagne Palestine, Phil Glass, Robert Longo, Rothko, Donald Judd, De Maria, Cindy Sherman, Frank Gehry, fino a Basquiat, Mapplerthorpe e Joel-Peter Witkin. Irriducibilmente, i suoi mille plateaux erano contestualizzati nella dimensione politica dell’epoca e combinati alle geometrie del mercato.

Quest’ultimo, non ancora invasivo quanto oggi, già manifestava la propria fuga verso l’egemonia asiatica e Celant incalzava: «La carovana dell’arte si è ormai incamminata, come i primi pionieri, verso il lontano west che comprende non più l’Europa, se non come nostalgia e memoria del passato e della storia, ma l’ipertecnologizzato oriente che, per le stesse parole di Xiaoping, vuole essere moderno». Artmakers, resta il germe rigoglioso che ha alimentato il respiro artistico di Celant, in cui il lavoro immateriale, affidato al sapere e al pertinace studio, convergeva in una professionalità incondizionata che ne ha deterritorializzato l’agire.

Ripensare Szeemann
Negli anni a venire, la sua passione espositiva gli fa edificare una possente ed eclettica tessitura di mostre, all’interno della quale (per un innato senso dialettico) affronta la sfida di realizzare il reenactment di Live in Your Head. When Attitudes Become Form, Works, Concepts, Processes, Situations, Informations, l’epocale mostra curata da Harald Szeemann alla Kunsthalle di Berna nel 1969 e rimasta nella storia per la radicalità del concept e della pratica curatoriale. Fu una rottura concettuale che stravolse i canoni espositivi, ridefinì il ruolo del curatore e aprì uno scenario post-avanguardistico che rovesciava le categorie artistiche, non ultimo ridisegnò i parametri tra artista e spettatore e tra opera e spazio.

Celant la ripropone nel 2013, alla Fondazione Prada, nella sede di Palazzo Ca’ Corner della Regina a Venezia, semplificandola nel titolo When Attitudes Become Form. Bern 1969/ Venice 2013 e affidandosi ad una sorta di «allestimento situato» inverato da Rem Koolhaas che l’aveva riallestita seguendone pedissequamente i dettagli. «Si tratta di una operazione culturale affettiva, disconnessa da ogni dimensione feticistica e narcisistica, proiettata verso un impulso quasi pedagogico e divulgativo», precisava Celant.

Era una azione simulacrale che si nutriva delle ricerche condotte attraverso l’Harald Szeemann Archive and Library, ora acquisito dal Getty Research Institute di Los Angeles, nella sua restituzione filologica (con la ricostruzione dei perimetri e degli allestimenti fino al tratteggio e alla segnalazione delle opere mancanti). Una sorta di affondo nella archeologia del sapere, che testimonia una metodologia curatoriale inappuntabile, scientifica e che al pari di Szeemann, era basata sulla propria visionarietà e distante anni luce dalla piatta scolastica dei master curatoriali in voga ora. Celant assimila l’azzardo dello spinoso reenactment (considerata l’auraticità di Szeemann e la sua spregiudicatezza sperimentale) a una griglia di scarti.

Valori inespressi
Lo scarto tra l’originale e la sua ricontestualizzazione, che svuotano la carica emozionale e trasgressiva della mostra di Berna, lo scarto del mood che Szeemann aveva fissato nell’effimero e nel transitorio delle opere in mostra e, nondimeno, lo scarto dello status tra gli artisti sperimentali ma pressoché emergenti nel 1969 e la loro collocazione attuale, nel gotha dell’arte e del mercato. Si parla di artisti come Carl Andre, Giovanni Anselmo, Richard Artschwager Joseph Beuys, Mel Bochner, Alighiero Boetti, Pier Paolo Calzolari, Hanne Darboven, Walter De Maria, Jan Dibbets, Philip Glass, Hans Haacke, Eva Hesse, Jannis Kounellis, Richard Long, Mario Merz, Robert Morris, Bruce Nauman, Pino Pascali, Steve Reich, Richard Serra, Robert Smithson, Michael Snow, Keith Sonnier, Gilberto Zorio e molti altri.

Un gap irrecuperabile tra lo spleen di Szeemann e la istituzionalizzazione dell’art system contemporaneo, che induce Celant a dirottare il reenactment verso la centralità dell’inespresso, il valore che ogni opera accumula nel tempo, piuttosto che impantanarsi in una paludosa operazione celebrativa.
E proprio questo ricorso a Live in Your Head. When Attitudes Become Form, non fa che suggellare, all’interno della sua cosmogonica produzione di eventi, la sua attrazione immanente per il memorabile, concetto che perfettamente gli aderisce.