Occhiali, penna tra le mani, lo sguardo sui fogli poggiati sulle gambe, l’aria seria del giovane intellettuale. Così Germano Celant appare in una fotografia scattata nei primi giorni di ottobre 1968 negli Antichi Arsenali di Amalfi. Il critico – scomparso a ottanta anni il 29 aprile scorso a Milano – aveva appena inaugurato una delle esposizioni fondamentali per la vicenda artistica di quegli anni, Arte povera + Azioni povere. Tanto la mostra quanto l’«assemblea» – una discussione aperta tra critici e pubblico – e le azioni che gli artisti eseguono sotto le volte gotiche degli Arsenali, nelle vie della città o in riva al mare, rappresentano in effetti l’irruzione di uno spirito di novità radicale, in cui opere e «comportamenti» danno vita a una mescolanza anarchica di materie, immagini, corpi, pensieri. Evento esemplare nella sua anticonvenzionalità, Amalfi ha inaugurato un modello di esposizione come luogo in cui l’arte «accade» in continuità con la vita.
Insieme a nomi nuovi del panorama internazionale, ad Amalfi sono presenti gli artisti dell’arte povera, il gruppo tenuto a battesimo da Celant in una mostra a Genova l’anno prima e da allora rimasto indissolubilmente legato al suo nome. Nel manifesto Arte povera. Appunti per una guerriglia, pubblicato nel novembre 1967 su «Flash Art», il critico aveva disegnato una mappa della ricerca artistica italiana più recente, letta sotto il segno di una rivolta che colpiva simultaneamente i linguaggi espressivi, le idee e le istituzioni dell’arte. Con la sua richiesta di essenzialità e autenticità, l’arte povera, scriveva Celant, è «impegnata con la contingenza, con l’evento, con l’astorico, col presente», rifiuta categorie ed etichette e tende a «liberazioni formative e compositive, antisistematiche, tese all’identificazione uomo-mondo», in cui cioè «l’uomo è il fulcro e il fuoco della ricerca, non più il mezzo e lo strumento».
Spogliata dell’inevitabile enfasi ideologica, giustamente ridimensionato il suo immediato valore politico, riconosciute ormai le grandi differenze tra gli artisti del gruppo, la forza dell’intuizione di Celant resta tuttavia inoppugnabile: con l’arte povera si può ben dire inizi un nuovo corso, complesso e imprevedibile, per l’arte italiana. Un libro importante e innovativo, Arte povera, pubblicato in più lingue nel 1969, metteva in questo senso ulteriormente in luce la capacità del giovane critico di creare connessioni a lungo raggio e di posizionare saldamente le esperienze italiane nel panorama delle ricerche europee e americane più attuali.
Per un’intera generazione di artisti e critici italiani è in effetti questo il momento di una trasformazione di cui Celant interpreta simultaneamente tutti i tratti cruciali, stabilendo di fatto un nuovo standard culturale: l’indifferibile apertura internazionale della scena artistica, l’affermazione della figura del curatore indipendente, la preminenza data alla «scrittura espositiva» rispetto al testo tradizionale, la relazione diretta con gli artisti. L’ideale di Celant è quello di una «critica acritica», che procede affiancata all’arte, respinge ogni gerarchia intellettuale e rifiuta il giudizio, caposaldo dei critici delle generazioni precedenti, sostituendogli una nuova modalità basata sull’ascolto dell’opera – secondo l’idea avanzata da Susan Sontag in un saggio molto letto, Against interpretation (1964) – e sull’acquisizione e diffusione delle informazioni. Alla scrittura impegnativa e all’intransigenza ideologica della vecchia scuola, ma anche all’inventività mobile e onnivora del suo coetaneo Achille Bonito Oliva, Celant preferirà sempre la descrizione puntuale dei lavori e l’analisi ravvicinata delle poetiche degli artisti, con ben poche concessioni alla divagazione saggistica. Proprio per questo forse la parte migliore della sua produzione è quella legata al lavoro di documentazione, come testimoniano libri come Precronistoria 1966-1969 (1976) e Offmedia (1977), dedicato a nuovi media artistici, e soprattutto il catalogo della mostra Identité italienne al Centre Pompidou (1981), modello di una narrazione in cui la lettura sinottica delle vicende artistiche, culturali e politiche diviene strumento di interpretazione e (contestata) costruzione del canone.
Con il volume dedicato nel 1972 a un Giulio Paolini poco più che trentenne, Celant adotta la monografia come formato elettivo, un genere, come testimoniano del resto le numerose pubblicazioni realizzate in oltre quattro decenni, ben presto divenuto centrale nella sua attività posteriore. Rivolta ad artisti ancora in piena evoluzione anziché solo a maestri affermati, questa opzione rivela non solo lungimiranza critica ma anche una essenziale intuizione di fondo: l’arte ha ormai abbandonato la regola modernista della tabula rasa e della rivoluzione permanente dei linguaggi ed è ormai caratterizzata da una pluralità di alternative da osservare e convalidare in maniera simultanea al loro accadere. La monografia, un tempo ratifica a posteriori dell’œuvre di un autore, ne diviene si può dire un momento di formazione, contribuendo al tempo stesso a stabilire le coordinate di quella condizione rizomatica, indefinita, orizzontale, sintetizzata nel sintagma «arte contemporanea».
La carriera successiva di Celant riflette d’altro canto il sempre più rapido inserimento delle ricerche artistiche più recenti nel circuito delle grandi istituzioni e del mercato, un «mondo dell’arte» in cui il curatore diviene una rispettata ed efficiente figura professionale. Di questo panorama Celant è rimasto fino alla sua scomparsa una figura di spicco: diventato curatore al Guggenheim di New York, vi allestisce importanti retrospettive (Mario Merz, 1989) e grandi macchine spettacolari, come l’assai discussa The Italian Metamorphosis: 1943-1968 (1994), modello di un approccio multidisciplinare adottato più di recente nell’anch’essa controversa Arts & Foods alla Triennale di Milano (2015). Alla Fondazione Prada, che dirigeva dal 1995, il suo interesse per lo scavo documentario e la restituzione storica ha trovato un’ancor più vasta attuazione in progetti ambiziosi come The Small Utopia: Ars Multiplicata (2012), il remake, ma forse sarebbe meglio dire l’appropriazione, della celebre mostra di Harald Szeemann del 1969 When Attitudes Become Form (2013), e soprattutto Post Zang Tumb Tuuum (2018), un’ampia ricostruzione dell’arte italiana tra le due guerre che evidenziava tuttavia, al di là di un allestimento pur sin troppo orientato all’effetto, un approccio evasivo alle questioni storiche e politiche che essa stessa sollevava.
Un bilancio della parabola di Celant non può che tener conto di tutti gli aspetti che si sono venuti a intrecciare nella sua personalità: il fedele compagno di strada degli artisti e lo strategico organizzatore, l’appassionato raccoglitore di documenti e testimonianze (e ci si augura che il suo straordinario archivio personale venga ora preservato e reso accessibile) e il conoscitore al servizio di una sofisticata industria culturale. Questa ambivalenza è strutturale nel panorama dell’arte e in genere della cultura del capitalismo tardo, e Celant ne ha incarnato fisicamente e a lungo i caratteri e le contraddizioni. Fedele in fondo a quanto scriveva nel catalogo di Amalfi, fare critica ha sempre pragmaticamente equivalso per lui alla realizzazione «immediata di un risultato, azione o evento, (…) non solo come dimensione del preferibile e dell’ipotizzabile, ma evento in divenire con la realtà attuale e contingente».