Nel 1960, in un saggio destinato a una trasmissione radiofonica il cui oggetto era Osip Mandel’stam, uno dei poeti da lui più amati, Paul Celan scriveva: «Il luogo della poesia è un luogo umano, “un luogo nell’universo”, certo, ma che si trova quaggiù, nel tempo». Il salto di qualità della critica tedesca nel doppio anniversario – della nascita, nel 1920 a Czernowitz, (città asburgica fino al 1918, poi rumena, poi sovietica, oggi ucraina) e della morte nel 1970, a Parigi – si realizza nel restituire alla poesia di Celan il rapporto con la storia, che la rende tanto più potente.

Figlio unico di genitori ebrei (la madre di lingua tedesca, il padre rumena) Paul Antschel (Ancel in rumeno, poi anagrammato a Parigi in Celan) frequentò scuole ebraiche, tedesche e rumene fino alla maturità, in un ambiente estremamente vivace da un punto di vista sia linguistico che intellettuale.

Le sue prime poesie, più convenzionali, risalgono al 1938, anno in cui, per evitare le leggi antiebraiche si iscrisse alla facoltà di medicina di Tours, da dove rientrò prima dello scoppio della guerra. Dall’anno seguente studiò alla facoltà di lettere rumena e poi russa di Czernowitz, e due anni dopo, quando da poco era cominciata l’occupazione tedesca, i genitori furono deportati nel campo di Michailovka dove il padre morì di tifo e la madre fu uccisa. Paul Antschel, per sfuggire alle deportazioni trascorse due anni (dal 1942-44) nel campo di lavoro di Fälticeni, in Romania. A Cernowitz, nel 1944, quando Celan, riprese gli studi, la poesia era qualcosa di vivo, scrive Wolfgang Emmerich in una sorta di biografia, Nahe Fremde, Paul Celan und die Deutschen (Vicina estraneità, Paul Celan e i tedeschi, Wallstein, pp. 400, € 26,00) – la sola uscita per l’anniversario – in cui tutta la vita di Celan viene ripercorsa nel segno del rapporto con la Germania, i suoi abitanti e soprattutto con la lingua tedesca.

Negli incontri serali tra giovani poeti e amici di origine ebraica, racconta Emmerich, si parlava, si commentavano i primi resoconti giornalistici sullo sterminio e sui campi, si leggevano versi, si improvvisava, in lingua tedesca: nacque in questo contesto la poesia Fuga di morte alla cui genesi è dedicato un libro di Thomas Sparr, ricco di documentazione anche inedita, Todesfuge Biographie eines Gedichts, (Fuga di morte, biografia di una poesia, Dva Verlag, pp. 350, € 22,00). Un’esperienza del fare poesia, questa, che si riverbera su tutta l’opera a venire: «Forse», scrive sempre Wolfgang Emmerich «non c’è – a parte i giochi di parole dell’epoca di Budapest e le poche poesie per bambini – una sola poesia di questo autore in cui non sia presente un ricordo, anche mediato, dello sterminio degli ebrei». Già nel 1998, Giuseppe Bevilacqua, nel saggio introduttivo al Meridiano Mondadori, Eros–Nostos–Thanatos, affrontava coraggiosamente, pur non avendo ancora a disposizione gli straordinari materiali che vengono pubblicati ora, una panoramica «globale» sull’opera di Celan in chiave storica, che poteva allora apparire banale solo a chi non conoscesse l’ambito in cui si muoveva la critica sia francese che tedesca, dove si eliminava drasticamente o si passava in secondo piano il dato storico a favore, come scriveva lo stesso Bevilacqua, di «una pretesa assoluta autoreferenzialità, la quale non lascia più alcuno spazio fuori dei confini di una sofistica analisi del “farsi del poema” e del suo “materiale linguistico”».

Ciò che cambia dunque, nelle uscite di questi ultimi anni, oltre all’accesso a documenti e materiali che vent’anni fa non erano disponibili perché ancora secretati nell’archivio di Marbach, è la disponibilità a leggere tutta la parabola dell’opera di Celan dentro la trama sottile del suo dialogo costante con il tempo. Accade, appunto, nel bel saggio di Emmerich, che prende atto della contraddizione profonda in cui la poesia di Celan è stata iscritta: da una parte una «lingua madre e lingua degli assassini», come ebbe a dire lo stesso autore. Dall’altra, come scrive Emmerich, la realtà di un paese, la Germania Federale, cui quella lingua apparteneva e in cui «migliaia di persone», e tra questi anche accademici e scrittori, «solo quindici o vent’anni prima avevano collaborato se non addirittura aderito al regime nazista».

Già nel 1946, in una lettera da Bucarest, Celan scriveva al critico svizzero Max Rychner, uno dei suoi massimi sostenitori: «Voglio dirle quanto sia difficile, da ebreo, scrivere poesie in lingua tedesca. Quando le mie poesie verranno pubblicate, arriveranno probabilmente anche in Germania e – mi lasci dire questa cosa raccapricciante – la mano che aprirà quel mio libro avrà forse stretto la mano dell’assassino di mia madre. Ma il mio destino è questo: scrivere poesie in lingua tedesca».

La seconda fase dell’analisi dell’opera di Celan viaggia dunque verso quella che Michele Ranchetti, all’epoca del suo lavoro sul libro di Ilana Shmueli Di’ che Gerusalemme è, definì una «ricostruzione degli elementi «realistici» all’origine dei versi»: fino a quel momento, soltanto Ilana, l’amica ritrovata di Czernowitz, che Celan andò a visitare in Israele poche settimane prima di gettarsi nella Senna, e Peter Szondi avevano proceduto in questo senso.

Il lavoro di Wiedemann
Pietra miliare dell’attuale cambio di paradigma, due colossali lavori: la nuova edizione delle poesie di Celan, con diversi inediti – Die Gedichte, neue kommentierte Ausgabe (Le poesie, nuova edizione commentata, Suhrkamp, pp. 1262, € 78,00) e le 691 lettere contenute in Etwas ganz und gar Persönliches Die Briefe 1934-1970 (Qualcosa di assolutamente personale, Le lettere 1934-1970, Suhrkamp, pp. 1285, € 78,00) entrambi i volumi analiticamente commentati da Barbara Wiedemann, che da trent’anni si dedica con rigore impeccabile al lascito del poeta, di cui aveva già curato molti carteggi, tra i quali quello con Nelly Sachs, e l’altro più recente con Ingeborg Bachmann, ma anche con molti altri, usciti nel corso degli anni: tra questi, l’epistolario con Peter Szondi (che in Italia attende ancora un editore), quello imponente e anch’esso di grande interesse con la moglie, l’artista Gisèle Lestrange, e la corrispondenza di tutta una vita con il compagno di scuola e amico Gustav Chomed, fra gli altri. Di Barbara Wiedemann è anche l’edizione tedesca dei Microliti di cui Mondadori pubblica ora una nuova edizione.

Edgar Jené,«La vallée sûr…», 1948

Tutto è vicino, niente è scordato

Raccogliendo in ordine cronologico una scelta delle lettere scritte da Celan tra il 1934 e il 1970 a una gamma molto vasta di corrispondenti (quelle provenienti dai carteggi già editi sono poco più della metà) Barbara Wiedemann rende possibile l’evidenziazione di una sorta di «biografia interiore ed esteriore» dell’autore, il cui tratto fondamentale è il bisogno di muoversi tra le lingue, il bisogno di tradurre: ne scrive per esempio riguardo a alcuni romanzi di Simenon, e riguardo alle versioni poetiche da Apollinaire, da Valéry, da Michaux, da Esenin, fra gli altri.

A Hans Magnus Enzensberger, che nel giugno del 1958 gli chiede delle poesie per la rivista «Akzente», Celan risponde entusiasta: «Forse le posso proporre qualcosa di russo. Negli ultimi tempi ho infatti tradotto molto dal russo, soprattutto l’assolutamente straordinario Osip Mandel’stam».

Il racconto del soggiorno a Parigi
Scritte perlopiù in tedesco, ma spesso anche in rumeno o in francese e qua e là in frammenti di ebraico e di russo, queste lettere ci restituiscono, almeno in parte, il crogiolo di lingue e culture in cui Celan aveva vissuto nella prima metà della vita. Grazie alla scelta di Wiedemann, alcuni percorsi trasversali sono individuabili, e lasciano scoprire quali siano i temi via via al centro dell’interesse di Celan, mese per mese e persino di settimana in settimana, permettendo di seguire i singoli carteggi in senso cronologico e trovare corrispondenze tra lettere e poesie a distanza di molti anni.

Tra il 1938 e l’anno seguente, ad esempio, si passa dalla lettera ai funzionari della facoltà di medicina di Tours (dove Celan studiò per un anno), a quella nostalgica alla madre, alla lettera a Gustav Chomed, in cui Celan racconta diffusamente della sua permanenza a Parigi e in cui accenna di essere passato in treno da Berlino, appena prima della «notte dei cristalli». Bisognerà attendere il 1962 perché Celan ricordi quel viaggio nella poesia La Contrescarpe: «Via Cracovia / sei arrivato alla stazione / di Anhalt / fluiva incontro ai tuoi sguardi un fumo /era già il fumo di domani».

Il gruppo più compatto dei corrispondenti è ebreo: oltre ai parenti che vivevano in Inghilterra, negli Stati Uniti e in Israele, la maggior parte degli amici rimasti in Romania o nell’Unione Sovietica e poi conoscenti e colleghi da tutto il mondo. Alcuni di loro erano anche originari della Germania o dell’Austria, ma non tutti erano tornati dopo la guerra.

C’è, fra questi, Erich Einhorn, l’amico di giovinezza frequentato a Czernowitz, che dopo essere stato ufficiale nell’esercito sovietico, lavorò a Mosca prima come insegnante di lingue (rumeno e italiano) poi come traduttore: Celan gli scrive nel 1944, rientrato dai lavori forzati in una lettera che è una conta dei morti, la rievocazione di una comunità in parte scomparsa e in parte dispersa. Poi il carteggio si interrompe per molti anni e riprende nel 1962, sempre con una lettera di Celan: «Tutto è vicino e niente è dimenticato» scrive «benché da quattordici anni – o meglio: dal luglio 1948 – io viva a Parigi, sono, nei miei pensieri, spesso a casa e con gli amici di un tempo». Quella «casa» dove la poesia nasceva tra gli amici che si citavano l’un l’altro e parlavano in versi, al modo russo, è Czernowitz, città scomparsa, per lui, dalla carta geografica, «un luogo sommerso», che esiste però nell’anima, come dice nel giugno 1960 all’amico Milo Dor, scrittore e avvocato viennese, uno dei corrispondenti più assidui, al quale rivela di voler rifiutare l’omaggio richiesto al suo luogo d’origine.

«Queste lettere hanno un carattere molto particolare» scrive Barbara Wiedemann «perché ci permettono di capire senza sforzo cose che altrimenti andrebbero spiegate faticosamente e che a volte proprio non si possono spiegare». Per esempio, quel punto di svolta nella vita (e quindi nei carteggi) che furono le accuse di plagio mosse dalla vedova del poeta rumeno Yvan Goll, a partire dal 1956.

Scrive Celan nel novembre 1949 all’amica Erica Illegg, conosciuta a Vienna: «Domenica scorsa sono stato da Yvan Goll… Un vero scrittore. Un essere umano. Il primo che incontro da quando sono a Parigi. Un tempo scriveva in tedesco, ora quasi solo in francese. È alsaziano». Celan lo aveva conosciuto, già molto malato, nel ’49, poco dopo il suo arrivo a Parigi: gli aveva mostrato le sue poesie e si era sentito rispondere: «Lei non è uno che scrive poesie, Lei è un poeta», così riferisce alla amica Erica. Tale è il rapporto di fiducia che si era stretto nei pochi mesi della loro frequentazione, che Celan divenne con la moglie di Goll, suo esecutore testamentario nonché traduttore delle ultime opere in francese. Nel mese di maggio del 1960 (c’erano già state delle avvisaglie nel 1953 e nel 1956) Claire Goll diede inizio, con un articolo sul «Baubudenpoet», a un’accanita campagna denigratoria contro il vincitore designato del premio Büchner, accusandolo di plagio dai volumi di poesie in lingua francese di Yvan Goll, che Celan aveva tradotto.

Contro chi minimizzava
Proprio a questa molto complessa vicenda, che riporta in primo piano la questione della rimozione della shoah e dell’antisemitismo strisciante nella società tedesca, Barbara Wiedemann ha dedicato un libro parecchi anni fa, Paul Celan, Die Goll-Affäre Dokumente zu einer «Infamie» (Paul Celan, L’affare-Goll, documenti per una «infamia», Suhrkamp, 2000, pp. 926, € 82,00). A partire dal 1956, Celan mobilita tutta la sua rete di corrispondenti – tra i quali Heinrich Böll, Günter Grass, Max Frisch, René Char – ma tutti o quasi finiscono per deluderlo, (se non altro transitoriamente, come il suo paladino Szondi), chi cercando di minimizzare chi perché, a suo dire, come Heinrich Böll o Alfred Andersch, «se ne lava le mani». Scriverà in Bacca di lupo, il 21 ottobre del 1959: «Madre, loro tacciono. / Madre, loro sopportano che / la perfidia mi diffami. / Madre, nessuno / agli assassini ferma la voce. // Madre, loro scrivono poesie».

Così, molte amicizie pluriennali vanno in pezzi, soprattutto quelle con i colleghi tedeschi, «e non pochi – scrive Barbara Wiedemann nella postfazione alle lettere – credono di cogliere nelle esasperate risposte di Celan i segnali della malattia psichica». Rifiutandosi di rispondere agli attacchi sui giornali, lascia che intervengano prima Peter Szondi e poi Klaus Demus, Ingeborg Bachmann e Marie Luise Kaschnitz: «C’è qualcosa che nessuna infamia mi può togliere», scrive il 9 agosto 1960 a Otto Pöggler, «è il mio tacere, il mio argomentato tacere». E così, sulle barricate di questa incongrua battaglia, Celan consuma il suo estenuato addio alla lingua-madre, mentre sembra avverarsi la profezia di Tubinga, quando l’«Hölderlin del ventesimo secolo», come lo definì Nelly Sachs, scrive: «Venisse, / venisse un uomo, / venisse un uomo al mondo, oggi, con / la barba di luce dei / patriarchi: potrebbe, / se parlasse di questo / tempo, lui / potrebbe / solo balbettare e balbettare».