Era già successo tutto, quando Paul Celan nel 1948 dette alle stampe presso la viennese A. Sexl una prima raccolta delle sue poesie, di cui Einaudi presenta ora la traduzione italiana a cura di Dario Borso: La sabbia delle urne («Collezione di poesia», pp. 192, euro 14,00). Parte della sua famiglia – gli Antschel, questo il vero nome, erano ebrei – deportata in campi di sterminio, mentre lui prima fuggiva dal paese natale, la Bucovina (nel 1942 annessa all’Unione Sovietica e poco dopo occupata dalle truppe d’invasione naziste) per recarsi a Bucarest e successivamente trovava riparo a Vienna e infine a Parigi. Morte, devastazione, esilio, sradicamento, perdita di ogni cosa: questa era stata l’esperienza dell’allora ventottenne poeta, nato a Czernowitz il 23 novembre 1920. Questa la materia del suo canto. Così in «Todesfuge»: «Grida suonate piú dolce la morte la morte / è un maestro tedesco / grida archeggiate piú scuri i violini cosí salirete / per aria come fumo / cosí avrete una tomba fra le nuvole lí non si sta stretti».
Ma come è possibile trasformare in poesia un simile orrore? Se lo chiede lo stesso poeta, se lo chiede da dentro la poesia, se lo chiede in poesia, domandandosi se in un mondo precipitato nel caos e nella dismisura abbia ancora ragion d’essere quel principio d’ordine che è la rima: «E tolleri, madre, ah come in passato a casa, / la dolce, la tedesca, la dolorosa rima?». La risposta è no, è infatti questa sarà l’ultima poesia celaniana in rima. Rivolgendosi alla madre, che gli aveva insegnato ad amare l’antico verso tedesco, Celan si appella alla madrelingua, ed è nella madrelingua che trova le rime per dire no alle rime: nel testo originale «a casa», daheim, fa rima con «rima», Reim.
Prendere congedo dalla rima, usando la rima, è una perfetta metafora del prendere congedo dalla poesia, scrivendo poesia. Vale a dire: è ancora possibile scrivere poesia dopo Auschwitz? Sarà Adorno a formulare la cruciale domanda celaniana in termini poi diventati canonici. Il cui significato riposto è il seguente: solo sottraendosi a se stessa e alle proprie ragioni fondanti la poesia riesce a essere fedele a se stessa, cosí come solo negandosi e autodistruggendosi nei suoi principi costitutivi la musica può trovare nuovamente legittimazione.
In quanto armonia e consonanza, dice Adorno, la musica è moneta falsa, è inganno, menzogna. Pretende di essere immagine del mondo, e a suo modo lo è, ma immagine menzognera. Tutto quel che possiamo onestamente dire del mondo è che il mondo non è quel che dovrebbe essere. Nulla accade nel mondo che non lo restituisca all’imperfezione e al disordine. Nulla ha senso che non sia l’insensatezza del tutto. Se la musica dice a suo modo la verità del mondo, può farlo unicamente rinunciando a qualsiasi principio d’armonia e attestando la dissonanza che è nel cuore di ogni cosa. L’irredimibile può soltanto essere rispettato. La sua trasfigurazione è peggio che una bestemmia, perché è una avvilente e offensiva falsità.
E che cos’è la poesia in generale e la rima in particolare, ragiona Celan, se non opera di trasfigurazione e di abbellimento al pari della musica – quella musica che risuona nella lingua materna dell’infanzia e che dice l’eterno ritorno dell’eguale, facendoci credere che in fondo niente vada mai perduto? Per questo bisogna prendere congedo dalla rima. E anche dalla poesia. Ma non si può farlo che in poesia, attraverso la poesia, per mezzo della poesia. Altrimenti il mondo ammutolirebbe. E il grande silenzio calato sul mondo inghiottirebbe anche la possibilità di prestare ascolto a chi non ha più voce. Alla domanda se sia ancora possibile far poesia dopo Auschwitz, Celan risponde (e sarà la stessa risposta che di lí a qualche anno darà Primo Levi) che la poesia ha trovato ad Auschwitz il proprio contenuto essenziale, al punto che non ci può essere poesia se non come memoria dell’immemoriale.
Ma ciò che unisce così profondamente Celan e Adorno è anche ciò che li divide. In Adorno la musica sopravvive a se stessa dopo aver fatto tabula rasa di sé e della propria tradizione. La nuova musica non ha piú nulla a che fare con la musica del passato e cioè con la musica che di fatto è complice di una presunta armonia del mondo e di un fittizio assetto sociale. Secondo Celan invece la poesia rinasce dalle ceneri cui si è ridotta perché queste sue ceneri sono sacre, sono vive, sono la vita stessa della poesia. La poesia altro non è che la sua lingua, e la lingua è quella che era, sempre. «Vicina e non perduta in mezzo a tante perdite, una cosa sola: la lingua». È la lingua a custodire le ceneri, a prendersene cura amorosamente, a essere la sola cosa che resti.
Il poeta non crea una propria lingua, tantomeno ne elabora una nuova a partire dalla distruzione di quella vecchia. Di proposito vuole scrivere nella lingua che è la stessa con cui è stato ordinato lo sterminio delle persone care. La sua lingua materna. Lingua incenerita, pietrificata, fattasi come sabbia, ma non è per l’appunto questa sabbia, questa sabbia contenuta in urne funerarie, a trattenere un barlume e anzi una luce di vita sulla soglia del suo precipitare nel nulla? «In questa lingua», scriverà Celan in una sorta di giustificazione retroattiva della poetica cui è ispirata questa prima raccolta di liriche, «ho tentato di scrivere poesie: per parlare, per orientarmi, per appurare dove mi trovavo e dove stavo andando, per darmi un progetto di realtà».
Questo spiega anche ciò che altrimenti resterebbe incomprensibile e cioè la fascinazione provata da Celan, ben piú che per Adorno, per Heidegger, di cui Celan conosceva i trascorsi nazisti e di cui forse sospettava anche l’antisemitismo. Il fatto è che Heidegger a partire da una sua personalissima lettura dei poeti (Hölderlin e Rilke su tutti) era andato sviluppando una sua filosofia del linguaggio che non poteva non destare l’interesse di Celan. In essa il linguaggio, Sprache, era da intendersi non già come un’astrazione linguistica e ancor meno come una costruzione artificiale del pensiero, bensí come concreta realtà storica. Solo storicamente, solo nel tempo di una comunità che ha una sua storia il linguaggio secondo Heidegger si fa rivelazione del senso di questa storia e anche del senso dell’essere.
Il senso o il non senso? chiederà Celan a Heidegger, sollecitandogli una parola radicalmente diversa rispetto a quelle da lui dette fino ad allora. Ben piú importante che comprendere il senso (della storia, dell’essere, di qualsiasi cosa) è comprendere il non senso. Anche perché per comprendere il senso è necessario comprendere la terribile necessità della catastrofe e della fine cui tutto è votato. È necessario porsi dal punto di vista della morte, come appunto fa Heidegger. Invece per comprendere il non senso è necessario porsi dal punto di vista della vita, come vuol fare Celan. E comprendere l’incomprensibile: comprendere per esempio (sono espressioni celaniane) come una pietra possa fiorire, come la terra possa essere lieve a chi tutto ha patito, come un cuore nero di malinconia possa schiudersi a una carezza amorosa.
Del resto, non sono poesie d’amore, queste poesie di Celan? Non è un canzoniere ispirato dalla donna amata, e a lei donato, questa raccolta? «E io parlo d’amore», recita un verso di essa. E ancora: «Piove, sorella: i ricordi / del cielo stillano il loro amaro. / Il lillà, solo davanti all’odore del tempo, / cerca grondante i due che avvinti / dalla finestra aperta guardavano il giardino».