La Dichiarazione dell’Avana, il Piano d’azione per il 2014 e le Dichiarazioni speciali, i documenti approvati ieri dai leaders politici dei 33 paesi della Comunità degli stati latinoamericani e dei Caraibi (Celac), tracciano i contorni di una nuova politica di integrazione del Sud del continente americano. Un’integrazione che si vuole antiegemonica; uno «spazio politico comune», l’ha defnito il presidente cubano Raúl Castro, tra eguali, ognuno con le proprie specificità politiche, sociali e culturali. E che priviliegi la lotta alla diseguaglianza (male storico del subcontinente), alla povertà e alla fame; che ponga la solidarietà come una delle basi dei rapporti interni; che si impegni a fare di questa regione una “Zona di pace”, libera da armi nucleari e che usi il dialogo e il diritto internazionale, non i conflitti armati, per risolvere i contenziosi.
Un modello di integrazione diverso da quello praticato da decenni dall’Organizzazione degli stati d’America, Osa, voluto e egemonizzato dagli Stati uniti che hanno imposto, anche con la forza, o appoggiando colpi di stato militari, modelli politici – e culturali – escludenti e politiche neoliberiste che hanno aggravato la forbice sociale e la dipendenza del subcontinente. Per questo – ha sottolineato ieri Cristina Fernández de Kirchner, presidenta dell’Argentina – ha un forte valore simbolico che i leaders dei 33 paesi della Celac si siano riuniti e abbiano discusso la nuova fase politica del sud dell’America proprio a Cuba, paese cacciato per volere di Washington dall’Osa nel 1962 , dopo che Fidel Castro aveva proclamato la scelta socialista.
Cuba, impegnata nelle riforme economico-sociali del proprio modello socialista, ritorna dunque protagonista nel processo di integrazione dell’America meridionale, al quale può offrire la sua esperienza in campi come la scuola e l’assistenza medica gratuite e di qualità per tutta la popolazione. E non solo. Due stati chiave dell’America latina, Brasile e Messico, hanno proclamato di voler scegliere l’Avana come partner economico e industriale. Dilma Roussef, presidenta del gigante economico del subcontinente, ha definito Cuba un «socio economico di primo grado», annunciando un aumento del flusso commerciale e nuovi piani industriali con la più grande isola del Caribe. Dopo aver inaugurato, assieme al presidente cubano, il terminal di container del nuovo porto di Mariel (costruito da una delle maggiori imprese brasiliane e per gran parte finanziato (con 680 milioni di dollari) dal governo brasiliano), Dilma ha annunciato che vi sarà un secondo finanziamento di 290 milioni di dollari per lo sviluppo della Zona speciale di sviluppo di Mariel, oltre a progetti comuni soprattutto nel campo delle biotecnologie.
Altrettanto significativo è stato l’annuncio espresso da Enrique Peña Nieto: il presidente del Messico, pur impegnato in casa sua in una serie di riforme liberiste, ha affermato di voler «rapporti più stretti» con Cuba, mentre la compagnia nazionale petrolifera messicana Pemex ha in programma un accordo per l’esplorazione e lo sfruttamento di giacimenti petroliferi assieme alla cubana Cupet in tratti di mare confinanti nel Golfo del Messico.
Il segnale inviato a Washinton è dunque chiaro. La politica di divisioni e di isolamento in America latina «è stata sconfitta», ha sostenuto Alicia Bárcenas, segretaria della Commissione economica per l’America latina (Cepal), la quale ha definito la costituzione della Celac «il risultato politico più importante degli ultimi decenni» nel subcontinente. Giudizio già espresso due anni fa da Fidel Castro, e ribadito martedì dal presidente dell’Ecuador, Rafael Correa, che, in un’intervista a Telesur ha messo i piedi nel piatto: «Lo dico chiaramente, è giunta l’ora che la Celac (dove Usa e Canada non sono presenti, ndr) sostituisca l’Osa». Ovvero che il Sud del continente americano acquisti pienamente la proprio autonomia dall’impero del Nord.
Quanto il segnale inviato agli Usa sarà forte, dipenderà da due fattori. Il primo, tutto da costruire, riguarderà l’efficacia delle politiche che saranno messe in atto per dare sostanza alla Dichiarazione dell’Avana, un documento che non ha valore vincolante ma dipende dalla volontà dei vari governi di metterne in atto le raccomandazioni. E di farlo in modo coordinato ed «evitando di costruire una nuova burocrazia», come ha richiesto la presidenta dell’Argentina, la quale ha raccomandato che ogni governo della Celac crei al suo interno un apposito «spazio istituzionale dedicato all’integrazione».
Il secondo , ma non certo secondario, fattore riguarda la reazione di Washington. E su questo punto gran parte degli analisti esprime un forte scetticismo. È vero che il presidente Obama ha di recente dichiarato che «la politica degli Usa nei confronti di Cuba deve essere più creativa», e che il segretario di Stato, John Kerry abbia affermato che i rapporti con gli stati dell’America latina devono essere ora basati sull’eguaglianza. Ma nei fatti, la strategia di Washington rimane simile a quella del Big stick, il grosso bastone, e la piccola carota, a suo tempo teorizzata dal presidente Theodore Roosevelt.