Le idee sono complesse, sì, è vero, lo sono sempre state, ma questa volta di più, sono più vaste e diverse dal pur intricatissimo passato. Le idee di Cecil Taylor. L’ostinato «barbarico», reminiscenza bartokiana di sempre, è sempre diventato altra cosa ma qui ancora di più. Tanta Africa e afroamerica, tanto pianismo jazz delle origini. Le tempeste sonore – come non ritenerle un tratto stilistico/espressivo costante in quest’uomo? – accadono qui intorno a un nucleo mobile di suoni più che nella dimensione orizzontale di una piattaforma sulla quale farle accadere, magnifiche, pazze. Sono più calcolate, studiate e strutturate quelle vertiginose escursioni verso l’acuto che ben conosciamo, senza le quali non potremmo sopravvivere a un suo concerto.

INSOMMA, qui sembra di scorgere l’idea di una inquietudine che si confronta con l’idea di struttura più di quanto si coglieva in passato. Dove pur c’era, mai detto che mancasse. Dato che Taylor non è mai stato un cultore programmatico dell’alea. L’impressione è quella dell’ora di suoni più originale mai sentita nella originalissima storia tayloriana. Lui si muove in un ambito tonale? Be’ non scherziamo. C’è una politonalità integrale, non si pensi a una qualche melodia cantabile: non ce n’è traccia. C’è un gran lavoro sulla reiterazione. Ma gli itinerari sonori non sono a rigore né atonali né seriali, come accade nelle musiche trasformative di oggi.
A un certo punto appare il recitativo, se vogliamo chiamarlo così. Quel misterioso reading che sappiamo si svolge col corpo danzante come del resto è corpo che danza anche davanti (dentro!) al pianoforte. Prevale la recitazione febbrile, il declamato messianico da agitatore, ma le parole, difficile parlare di testo, sono dadaismo puro. Nelle parti pianistiche pare di sentire qualche influsso dei romantici estremi (un Liszt mettiamo) o di certi novecenteschi tipo Scriabin oppure ancora di una russa come Galina Ustvolskaya. Sono ipotesi, niente di più. Ci si pensa mentre si ascoltano certi episodi molto «massicci». Nonostante tutto, la peste, la psicosi, l’ansia, la reclusione, spuntano eventi di cultura, di conoscenza, di possibilità di un’esistenza piena. La serie dei Dischi di Angelica fa la sua parte nel compimento dell’impresa. Ecco un doppio cd, Cecil Taylor at the Angelica 2000 Bologna. Nel primo è registrato il concerto di solo pianoforte (e voce) di cui si è detto qualcosa fin qui.

NEL SECONDO è registrata un’altra performance di Taylor, questa volta in veste di intervistato, sempre a Bologna sempre per Angelica Festival, un giorno dopo (11 maggio). Intervistato per modo di dire. Il musicologo Franco Fabbri e qualcuno del pubblico gli fanno qualche breve domanda, lui parte per suoi viaggi meravigliosi, debitamente sconnessi ed ermetici, splendidamente lucidi, alternando suoni vocali tipo concerto del giorno prima a lunghi ragionamenti. Conferenza eccentrica e preziosa come se ne sentono una al secolo.
Apprendiamo che la musica non è «separata dal suono che esiste» e che si tratta di «organizzare il materiale». Non lo nomina mai ma questo è pensiero di Cage purissimo! Racconta che nella sua formazione hanno contato l’ingegnere catalano Santiago Calatrava e moltissimo Iannis Xenakis, anche come architetto. «Se la gente vuol parlare di armonia e melodia io non sono molto interessato… perché quello che accade in musica viaggia nello spazio». E passando vent’anni fa a questioni che oggi sono di stretta attualità: «Alla fine per chi voti? Credendo che ci sia il minore di due mali… magari suonano in tonalità differenti ma è sempre la stessa canzone».