Si è conclusa in grande stile Pompeii Theatrum Mundi che Roberto Andò ha curato per il Mercadante Teatro nazionale di Napoli e per il Campania Teatro Festival: un testo famoso e importante di Anton Cechov, con protagonista una signora della scena internazionale come Isabelle Huppert, con la regia del portoghese Tiago Rodrigues. Lo spettacolo è arrivato qui dopo aver inaugurato il festival di Avignone, e proprio di questo festival, una delle più importanti manifestazioni teatrali estive internazionali, il regista Rodrigues è stato nominato nei giorni scorsi direttore a partire dal 2023. Quasi a conferma della battuta che già circola nell’ambiente sulla scelta francese del «papa straniero» a forzato dispetto del proprio sciovinismo abituale, confermata dalla chiamata alla direzione del Festival d’Autômne dell’italiana Francesca Corona: ma evidentemente avranno i loro motivi in casa propria.

SI TRATTA comunque di un Giardino dei ciliegi diverso dalle immagini cui siamo abituati: se Luchino Visconti era fiero (e anche molto applaudito) per i ciliegi veri con i loro tronchi incombenti che riempivano il palcoscenico del Valle negli anni 60, qui la scena si illumina su una ordinata distesa di sedie, per gruppi di colore, che vanno in diagonale a riempire l’intero spazio. E un’altra variazione di ciliegi sarà di lì a poco negli alti telai d’acciaio da cui pendono molti lampadari a gocce, a stile variabile come la luminosità, a seconda delle situazioni. Ma il regista rivendica esplicitamente (nell’incontro stampa tenuto il giorno dopo insieme a Huppert) il fatto che il testo sia sempre un messaggio lanciato «in bottiglia», negli anni (e tra i pubblici) prossimi venturi, e ognuno avrà la facoltà di interpretarlo e viverlo a suo modo. Una convinzione che forse può suonare un po’ supponente, ma che non toglie allo spettacolo di Pompei il suo indiscutibile fascino: senza bisogno di pararsi dietro il fatto che Cechov non avesse apprezzato fino in fondo il debutto del suo testo al Teatro d’arte di Mosca messo in scena da Stanislawski, per il quale del resto era stato scritto. Per lo scrittore il Giardino fu l’ultimo testo prima di venir divorato dalla tubercolosi che lo affliggeva e che poco dopo lo fece morire. Sua moglie Olga Knipper aveva interpretato in quel debutto moscovita la protagonista, l’aristocratica e svagata Liubov Ranevskaja, proprietaria di quel «giardino» per la cui cura e manutenzione non si riescono più a pagare i debiti, tanto che dovrà essere messo all’asta.

E A COMPRARLO sarà l’amministratore della tenuta, origine contadina «figlio di mugik» e mugik lui stesso,come spesso ripete, tra la sorpresa e lo sconcerto degli altri personaggi di quella composita famiglia allargata, dove gli amori sbocciano ma non si realizzano, e i rimpianti sopravanzano le più piccole soddisfazioni. Quella forzata vendita di simbologia epocale, conferirà ulteriore tristezza per chi lì sarà costretto a rimanere senza mezzi di sussistenza, e una superficiale malinconia di facciata per la signora che col suo seguito se ne torna nella belle epoque dell’Europa occidentale.
Il debutto dell’opera è nel 1904, una dozzina d’anni prima della rivoluzione d’ottobre, ma neanche un anno prima dei moti di Odessa. La situazione era dura in Russia, non solo per il popolo ma anche per la nobiltà in decadenza e per la nuova borghesia, ipocrita come l’amministratore Lopachin. Un testo molto bello, che Rodrigues vuole rileggere oggi, con il calore della scansione rock di una band dal vivo, e delle scelte di evidente indirizzo «civile»: prima fra tutte l’aver affidato ad attori di pelle nera i ruoli del fratello della signora, e di solo alcune delle sue figlie. E anche al trafficone amministratore. A Rodrigues del resto non dispiace mai una vena pedagogica da fornire al pubblico. Meno plausibile risulta invece la scelta di aver spinto Firs, il servitore vecchissimo destinato a morire sotto i rintocchi mortuari del giardino nella casa ormai abbandonata dagli altri, a fare il gagà con la pazzerellona Charlotte, dama di compagnia della Liubov oltre che prestigiatrice. Una scena solitamente tagliata, qui gonfiata a vero «numero».

PER FORTUNA c’è Isabelle Huppert, bellissima e senza età (oltre che colta e avveduta come nell’incontro pubblico), che da sola col suo charme evoca il fascino e l’appeal svagato della protagonista. Ma ci appare più Liubov dal vivo, mentre risponde alle domande, che non sulla scena, dove tra sedie e lampadari sembra a tratti incespicare in una normalità quasi «banale», come del resto l’universo che le ruota attorno.