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Ceccobelli, una consacrazione processuale

Ceccobelli, una consacrazione processualeDa "T’odi", la mostra di Bruno Ceccobelli a Todi, foto Daniele Paparelli

Nella Sala delle Pietre del Palazzo del Popolo di Todi, la personale di Bruno Ceccobelli "T'odi" Vengono inscenati, costringendo a guardare dall’alto, alcuni lavori 1981-2017: la magia iconica dell’opera singola "sconfina", in linea con gli esordi dell’artista, segnati dalle «esperienze» degli anni sessanta

Pubblicato circa 6 anni faEdizione del 23 settembre 2018
Paola BonaniTODI (Perugia)

L’arte è il luogo della complessità. È il luogo in cui il nostro spirito può arricchirsi di esperienze nuove ed elevarsi libero dalle costrizioni della logica comune. È il luogo di un’ambiguità spazio-temporale in cui riusciamo a percepire contemporaneamente il «qui e ora» dell’oggetto e l’«altrove e sempre» da cui l’opera proviene e a cui è destinata. È il luogo in cui la materia inerte, carta, stoffa, legno, vetro, sabbia, tempera, olio o catrame, libera da avvilenti urgenze funzionali, è trasformata in forme, immagini, segni, che disvelano spazi e tempi immateriali.
A questa stimolante complessità viene da pensare entrando nella Sala delle Pietre del Palazzo del Popolo di Todi dove Bruno Ceccobelli ha allestito la sua ultima mostra personale. Promossa dal Comune e dell’Associazione Culturale Todi per l’Arte, l’esposizione, che ha inaugurato il 32° Todi Festival e resterà aperta fino al 30 settembre, raccoglie una trentina di lavori realizzati tra il 1981 e il 2017. Un altro nucleo di opere, datate tra il 1981 e il 1986, è presentata nella vicina galleria Bibo’s Place nella mostra Primo segno, recente sogno.
La lettura di Daniela Lancioni
All’entrata del grande salone del palazzo comunale Ceccobelli ha fatto alzare un muro su cui ha disposto la serie Ritratti di bandiera, un’opera del 2015 realizzata in collaborazione con i due figli Auro e Celso Ceccobelli. Queste insegne-autoritratti, in cui i volti e i corpi dei tre artisti sono impressi sui colori accesi delle bandiere di tutto il mondo, sono la soglia da varcare per accedere allo spazio unico della mostra. Dietro il muro una scala conduce sopra una passarella: al termine della salita ci si rende conto che bisogna abbassare lo sguardo per osservare i lavori che sono disposti sul pavimento del grande salone, appoggiati sopra uno strato uniforme di sabbia. «La visione è riservata a chi sceglie di compiere un determinato percorso», scrive Daniela Lancioni nel testo in catalogo che accompagna la mostra. Ceccobelli ha infatti più volte costretto lo spettatore a compiere fisicamente un’azione prima di poter confrontarsi con le sue opere. Così era successo, ad esempio, in occasione della sua prima personale Palazzo d’inverno 135 357 579, tenutasi nel 1977 nello spazio autogestito de La Stanza a Roma, e nelle più recenti occasioni Longa-marcia post-temporale alla Fondazione Volume! di Roma o Atti Unici alla storica galleria L’Attico.
Questa pratica si può ricollegare, osserva Lancioni, alle pratiche dell’arte processuale degli anni sessanta, in cui il fattore tempo diviene elemento essenziale per la fruizione dell’opera. In queste ricerche, come negli happenings e nelle performances che cominciano a diffondersi in quegli stessi anni, l’opera si rivela attraverso un’esperienza, un accadimento. Un evento che coinvolge in prima persona lo spettatore. Lo stesso accade in alcuni dei primi lavori di Ceccobelli, sicuramente nutriti anche dal fervente clima di sconfinamenti tra arte e teatro che caratterizza il panorama artistico romano negli anni settanta. Nella mostra a La Stanza, ad esempio, prima di far accedere gli spettatori nella sala Ceccobelli accendeva una linea di fuoco sul pavimento che congiungeva due immagini presenti su opposte pareti, una fotografia del Palazzo d’Inverno e la sua riproduzione tracciata dall’artista sul muro con la matita.
Al centro del suo lavoro, tuttavia, già dai primi anni ottanta torna l’opera compiuta, con il suo corpo, con la sua «aura», con la sua unicità. Una selezione di questi lavori, realizzati su cartone, su tavola, su vetro, su feltro e su carta con grafite, olio, acrilici, pastelli, cera e catrame, sono oggi raccolti a Todi. In altre opere degli anni ottanta e novanta Ceccobelli ha usato spesso anche materiali e oggetti di recupero, materassi, reti di letti, sedie, sgabelli, porte, sempre con un unico intento, quello «di consacrarli», ha scritto una volta Alberto Boatto, di trasformarli in icone, cioè in «reminiscenze di archetipi celesti», secondo la definizione di Pavel Florenskij. Materie e colori compongono in questi lavori figure, simboli, lettere, numeri, che rimandano a un immaginario nutrito da sempre «di tutte quelle filosofie che ammettono l’impossibile», spiega Lancioni, di cui Ceccobelli «raccoglie le dottrine» e le restituisce attraverso «la materia che lavora con le mani, pazientemente, da artigiano».
Dalla superficie di sabbia della Sala delle Pietre, come da uno scavo archeologico, emergono frammenti che rimandano a un altrove atemporale in cui gli opposti si risolvono uno nell’altro, figure di luce e di ombra si sostengono a vicenda (L’ombra bramo, 1985), corpi e volti maschili e femminili entrano in contatto e si fondono (Coniugi rossi, 2007 e Incrocio, 2017), mani e piedi, punti di confine tra noi e il mondo esterno, si protendono nello spazio (Gemelli solari, 1985 e Due porte una sorte, 1993), potenti stelle generano lettere e alfabeti comprensibili in qualche mondo invisibile, mentre alimentano la stessa energia che anima il nostro agire (Occhio solare, 2012 e Ra, 2017).
Complessità, simboli, perturbante
A guidare Ceccobelli nella realizzazione di queste mutevoli cosmogonie è «l’idea della comunione tra uomo e universo – scrive sempre Lancioni –, uno stato di perfezione che molti fattori sulla terra corrompono e che l’artista, liberato dagli ingombri del mascheramento sociale, politico e economico, è in grado di ritrovare mostrando la via per ricongiungere il particolare all’universale». Il percorso che Ceccobelli ci invita a compiere non è quindi solo di incontro con l’opera, ma è il percorso necessario a penetrarne la complessità e a svelarne i simboli, vincendo la prima sensazione di perturbamento. Un percorso che richiede tempo e dedizione. Il suo è un invito a connetterci con la nostra parte spirituale. T’odi è il titolo che Ceccobelli ha dato alla mostra. Un’affermazione che contiene il negativo (odio) e il suo opposto (ascolto). Un’esortazione, la sua, attuale oggi come non mai.

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