editoriale del manifesto del 10 aprile 1983

Che pasqua da macello, per l’informazione. Neppure ce ne siamo accorti fino in fondo. Il manifesto rischia di esser messo a morte dalla presidenza del consiglio dei ministri.

La proprietà fantasma di Paese sera, forse un andropofilo capriccioso e scontento, annuncia che il dì della resurrezione di Cristo va a picco una vecchia e popolare testata di Roma, con i suoi oltre cento giornalisti e centinaia d’altri lavoratori, forse perché non risponde abbastanza docilmente ai nuovi padroni che si è trovata inopinatamente in testa.

Due giorni dopo il ministro Gaspari informa Radio radicale che la chiude. Più silenziosamente, un altro gruppo di giornalisti e tipografi viene liquidato col Globo.

Sono situazioni diverse, poteri diversi, giornali o testate che non sempre hanno molto in comune.

Ma è un mezzo sterminio.

il manifesto del 10 aprile 1983
il manifesto del 10 aprile 1983

Voglio parlare, oggi, della minacciata messa a morte di Radio radicale. Incombe proprio. E la tecnica è affascinante, democristiana, non cessa di stupire.

Con noi il metodo è stato sornione: il ritardo, l’asfissia dolce, il congelamento, l’assideramento.

Con Radio radicale è il blitz. Il ministro Gaspari afferra virtuosamente la legge: Radio radicale, dice, è nazionale. Non si può essere nazionali. Le trasmissioni via etere sono soggette alla regolamentazione dello stato. Dunque, sigilli, oggi o domani. Senonché, quale legge? Quale regolamentazione, per favore?

Dalla sentenza della Corte costituzionale (1976) in poi, il solo testo di legge, che è quello che garantiva il monopolio delle trasmissioni via etere alla Rai, è messo in mora. Siamo in piena «vacatio legis» (vedete quel che mi capita a frequentare i processi). Ed è tanto vero che prosperano le radio assolutamente nazionali: Radio Montecarlo cos’è? L’emittente di Roccacannuccia? E non parliamo di tv: in questo settore, dove invece si parla d’un limite di «bacino», ben quattro reti trasmettono sul territorio italiano, regolarmente annunciate dai giornali, niente affatto clandestine, grondanti di milioni, coloroni e intollerabile pubblicità — inizialmente giocose ed evasive, adesso politicanti di terz’ordine. E allora? E poi, il bacino di ascolto di Radio radicale è inferiore a quello di altre radio.

Radio radicale non usa né abusa delle onde, pubblica proprietà — come ricorda Rodotà — ma paga regolarmente il canone del telefono, perché funziona via cavo.

E via di questo passo, gli argomenti contro le tesi di Gaspari sono decine. E allora? Chi si vuol imbrogliare?

È che Radio radicale, è, fra le radio, forse la sola che sia politica a full – time. Trasmette in diretta le parole politiche, dovunque le raggiunge, magari pensate per quello specifico pubblico, da questo o quel leader, suo o non suo, effettacci ed effettucci compresi: le sentono tutti, può non far comodo, al tipo che si diffonde al microfono.

Radio radicale trasmette tutti i congressi, servizio di grande interesse: così, da Roma, molti di noi hanno potuto seguire lavorando il congresso del Pci.

Radio radicale segue, orrore, orrore, i lavori della Camera, che l’emittente nazionale relega alle 6,40 del mattino, prima che sorga il sole, e dopo mezzanotte, quando è tramontato da un pezzo: la considera un’attività notturna (non vorrei dire un «livello occulto», altrimenti sono guai per i parlamentari).

Non dovrebbero la Camera e il cittadino ringraziarla? So bene che il partito radicale riesce sovente a far uscire qualcuno dai gangheri, e nella sua guerra con Nilde Jotti non posso proprio dire che le mie simpatie sono sempre con esso: ma la Jotti ha potenti e fin troppo severe armi regolamentari, e ne usa, per poter consentire che a un partito eletto dal popolo sia tolta una voce; e tanto meno quando questa voce riflette quel che alla Camera, luogo di sovranità popolare, avviene.

Questa radio tutta politica è molto più forte di noi, eppure nella sua difesa da un attacco del tipo Gaspari, forse più inerme.

Non può fare un referendum simile al nostro: non ne ha il tempo, non ne avrebbe i modi, non può verificare l’ascolto, il suo fronte di alleati se non dalle telefonate e i telegrammi d’una audience grande ma inafferrabile.

E poi è d’un partito, che dunque cerca voti, magari anche, come tutti, in casa altrui: gli altri partiti non la difenderanno come poco hanno difeso noi, eccezion fatta per qualche amico, gli altri quotidiani.

Ve la raccomandiamo la solidarietà fra sinistra quando si tratta di voti e fra giornali quando si tratta di lettori. Ma non ci stancheremo di ripetere quanto sia autolesionista per gli organi di informazione lasciare che solo uno di essi si chiuda: questa è sempre una perdita secca, qualcosa che solo uno sciocco crede di recuperare.

Noi abbiamo gridato, a suo tempo, quando stavano morendo il Quotidiano dei lavoratori e Lotta Continua. Amaramente ci diciamo che bisognava urlare più forte. Il Quotidiano vive in Dp, nelle sue riviste, in parte si intreccia con alcuni nostri temi, possiamo veicolare a momenti, una sua eco. Ma Lotta Continua è proprio una voce che è stata messa a tacere, diversa dalla nostra storia e cultura; originale, autentica, voce d’una realtà ora non spenta, ma silenziosa.

A chi giova? Non è, per un paese democratico, per una classe dirigente che avesse un senso minimo della mediazione sociale, un sintomo grave, una zona d’ombra lasciata alla deriva?

Cosi io che pur più d’una volta strangolerei Marco Pannella (e lui farebbe altrettanto, e siccome è grande e grosso avrei la peggio) non posso accettare, il manifesto non può accettare che Radio Radicale sia sigillata e sotterrata.

Mercoledì se ne parla alla Camera; la sinistra si svegli per i fratelli discoli, già ha dato una mano a quelli eretici. Se no prima o poi la campana suonerà anche per lei.

I socialisti facciano, per cortesia, sapere se sono al governo o no. A momenti vien da dubitarne, ne parlano — anche l’ultima dichiarazione dell’on. Labriola — come se lo conoscessero solo da lontano.

E le altre radio, suggeriva Rodotà, non possono imparare dai radicali quelle forme di disobbedienza civile che Thoreau, venerando democratico, insegnò alla giovane democrazia americana?

Non sarà la rivoluzione, che diavolo. O vogliamo che ci impallinino uno per uno, come lepri che corrono sole, zigzagando nella prateria sotto il fuoco dei cecchini democristiani?