Quando siamo scesi dall’autobus cigolante e arrugginito, che procedeva sulle strade dell’Argolide lasciandosi alle spalle un pennacchio di fumo denso e nero, era già l’ora del tramonto. Per salire alle rovine di Micene, nascoste in una specie di sella fra due colline rocciose, bisognava aspettare il nuovo giorno. Ci guardammo intorno in cerca di un posto per dormire. Nell’estate del 1980, in seguito a un terremoto, in quelle campagne c’erano moltissime case in costruzione. I soliti parallelepipedi di cemento e mattoni che si trovano in tutti i meridioni della terra.

Per pochissime dracme, i proprietari lasciavano accampare nei cantieri chi andava in giro arrangiandosi, mettendo a disposizione, nei casi più lussuosi, una canna di gomma per l’acqua. Le vecchie per semplificare le trattative ti prendevano la mano e scrivevano con una matita le cifre del conto sul dorso. Sommando la mia età e quella della mia compagna di viaggio, non raggiungevamo insieme i trentacinque anni. Più che un viaggio, in effetti, era stata una vera e propria fuga da casa. Una specie di scommessa iniziata al porto di Brindisi, quando eravamo riusciti a salire sul traghetto per Patrasso senza che qualcuno notasse che le nostre carte d’identità mostravano sul retro il timbro «Non valida per l’espatrio».

I nostri genitori ci credevano in campeggio sul Gargano, coi nostri compagni di classe. Non l’avevamo mai fatta così grossa, ed era una cosa, a seconda dei momenti, esaltante e angosciosa. L’amore c’entrava poco. Ci eravamo convinti di «stare insieme» perché così facevano gli altri e così si vedeva nei film, ma il nostro legame era un’autentica amicizia: che è quanto di meglio possa capitare fra un uomo e una donna, in qualunque età della vita. Fosse stato vero amore, aggiungo, quell’avventura non l’avremmo nemmeno architettata, perché l’amore ammansisce e rende adulti, e la coppia è un animale pigro, umbratile, irresoluto. Ma la cosa più straordinaria di tutto quel viaggio è che gli adulti, greci e forestieri, mangiavano la foglia appena ci vedevano, nonostante i nostri disperati sforzi di apparire più grandi, fumando e indossando occhiali da sole.

Esposti a un archetipo

Capivano subito che c’era una disobbedienza grave all’origine di quel viaggio, e mettevano su un atteggiamento fra il divertito e il protettivo, caricandoci in macchina, nutrendoci, spiegandoci le strade e le fermate degli autobus. Era come se una goethiana Società della Torre vegliasse sul buon andamento di quell’esperienza così decisiva, così capace di orientare interi destini: la prima esposizione alla bellezza greca, con tutto il suo carattere di unicità e di archetipo incomparabile.

Comprendo benissimo il fastidio di coloro che, ben disposti a leggere delle considerazioni critiche su un libro o uno scrittore, si trovano invischiati in queste tranches de vie e nel loro subdolo soggettivismo. Ma il mio intento è parlare del bellissimo libro sulla Grecia di Emilio Cecchi, Et in Arcadia ego, non tanto e non solo come di un bellissimo libro, ma per il suo ruolo di quasi personaggio nella storia che racconto. La mia amica ne aveva scoperto e trafugato una copia nella biblioteca dei suoi genitori, e già questo furto era stato un primo tassello del nostro piano così esaltante. Nella primavera del 1934, Cecchi aveva viaggiato con il figlio per il Peloponneso, spingendosi fino a Creta, e come al solito ne aveva ricavato un libro, pubblicato la prima volta nel 1936, dopo averne fatto uscire sui giornali i singoli capitoli in forma di reportage.

Di fatto, a parte Creta, seguivamo l’itinerario di Cecchi su e giù per il Peloponneso, e ci leggevamo a vicenda i brevi capitoli quando eravamo arrivati sul luogo. Era una specie di rito al quale fin dai primi giorni avevamo attribuito un’importanza che non avremmo saputo spiegare.

Trentacinque anni dopo, le cose mi sono un po’ più chiare. Quello che tutti scoprono durante il primo «grande viaggio», per usare un’espressione usurata ma veritiera, è che il mondo non ha nulla a che fare con l’immagine bidimensionale che ce ne facciamo. Nella nostra ingenuità, avevamo creduto di muoverci da una cartolina all’altra. E non è che le cartoline siano false: il mondo contiene anche quelle, puoi arrivare esattamente in quel punto e in quella prospettiva. Ma il guaio è che tra una cartolina all’altra il mondo non è che estensione, occupata da vasti mari di oscurità e insignificanza. E se i grandi scrittori di viaggio sono davvero pochissimi, è perché quasi tutti fanno l’errore di puntare dritti a ciò che riveste un significato, inanellando descrizioni e illuminazioni. Col passare del tempo, avrei scoperto che Emilio Cecchi nei suoi libri di viaggio si era rivelato un maestro originalissimo proprio in questo, nell’intrecciare il gusto e la curiosità al sentimento, ugualmente autentico e nativo, che lo scenario delle apparenze è quasi sempre sbiadito, e lungi dall’eccitare un qualunque interesse, in realtà non fa pensare a nulla. Per questo guardare è la meno passiva delle attitudini umane, è anzi un’opera d’arte di per sé, un artificio supremo. È qui che si basa anche l’inconfondibile forza di persuasione del Messico di Cecchi, che nella cronologia precede la Grecia; ma si può risalire fino a Pesci rossi, il libro che lo aveva rivelato nel 1920, al cui inizio sta una sorta di raccolta di elzeviri di vario argomento e pian piano si trasforma uno straordinario reportage sulla Londra del primo dopoguerra.

Fieri e indistruttibili

Ma torno con piacere al tempo in cui non sapevo nulla. Ci eravamo sistemati al secondo piano di un villino al quale ancora mancavano tutte le pareti. Considerandoci a vista d’occhio malnutriti, la padrona di casa, prima che ci ritirassimo in quella principesca suite, ci aveva riempito di feta, pomodori, latte. Tutto intorno a noi la campagna ai piedi di Micene, lievemente ondulata, arsa per ore dalla vampa di un sole tra i più spietati al mondo, restituiva il calore accumulato in forma di un vapore dalle sfumature liquide e delicate.

Come era bello farsi una specie di casa, o se vogliamo di cuccia, prima che venisse la notte, nella vastità del mondo, lontani da tutto quello che avevamo conosciuto. Era il momento che preferivamo, in tutta la giornata. All’arrivo delle tenebre, senza bisogno di confessarcelo, sarebbero arrivati il senso di colpa, e la paura, e il desiderio che tutto questo si rivelasse un sogno, bello sì, ma destinato a finire nel nostro letto. Ci abbracciavamo nel sacco a pelo aspettando che la luce dell’alba ci riportasse il coraggio. Ma durante quei lunghissimi tramonti ci sentivamo fieri, e indistruttibili. Era il momento di Emilio Cecchi.

Bisognava trovare il capitolo corrispondente al luogo in cui eravamo arrivati, che avremmo letto sia prima che dopo la visita. La copia di Et in Arcadia ego, già ingiallita e molto fragile, si andava squinternando di giorno in giorno, tanto che iniziammo a usare i singoli fogli rimettendoli nel mucchio dopo l’uso. Avendone trovata una identica su una bancarella, ora so che si trattava della ristampa del 1940, uscita da Mondadori con una grafica frusta ed elegante da tempi di guerra. Nel 1980, un libro di Cecchi presentava già alcune difficoltà per due ragazzini che vivevano nel culto di Charles Bukowski.

Com’è noto, Cecchi impiegava quei toscanismi già un po’ desueti ai suoi tempi, «saltacavalla» per «cavalletta» e cose così. Ma non importava: non cercavamo un modello di scrittura, ma una scuola dello sguardo, quella prodigiosa capacità di filtrare con pazienza l’informe, che è sempre il primo aspetto in cui ci si mostrano le cose, fino a ricavarne l’essenza preziosa di un’ordine possibile, di una razionalità.

La prosa di Cecchi da questo punto di vista ha un’energia, una forza di persuasione strabilianti. Ed è così che mi basta pescare un brano, leggerlo con la necessaria intensità, ed è come se quella sera d’estate del 1980 non si fosse semplicemente dileguata nel nulla, ma al contrario si fosse acquattata nelle righe del vecchio libro, compresi i piloni di cemento della casa in costruzione, gli avanzi della cena divorata avidamente, presto assediati da un esercito di formichine, gli occhi neri e profondi della mia amica, l’Argolide che lentamente, ma inesorabilmente, sprofondava nella notte nel frinito oceanico di milioni di grilli in cerca d’amore. «Micene è ante litteram. Non sa quello che ha partorito. È come una creatura bruta che abbia fatto un sogno pieno di simboli; ma non potrebbe leggerlo o riconoscerlo, se glielo mostrano sulle carte. Assediata tra le rupi, con ai piedi l’informe necropoli, sta con una naturale protervia, con una durezza incomparabile, una dannata innocenza. Le mura, la rocca, i bastioni, hanno d’una bolgia dove il fuoco s’è spento; delle vestigia d’un castello maledetto. E hanno anche, a un tempo, di rustico e casalingo. Vedendo quei sassi bruni, lievitati, pensavo al fumo e all’untume degli incendi e del sangue. Ma pensavo anche, non so perché, al pane che il contadino si porta sul lavoro, e l’appoggia a una proda, con accanto una brocca d’acqua, un canestro».

Maledetta conoscenza

Devo aggiungere che mai nessuno ci aveva detto chi era Emilio Cecchi, quella specie di Grillo Parlante che ci eravamo portati dietro per puro caso. Eravamo tutti e due ancora così vicini all’infanzia che il semplice ripetere un nome sconosciuto poteva farci ridere fino alle lacrime. E mentre aspettavamo sul ciglio di una strada bollente che qualcuno ci caricasse, o camminavamo su una spiaggia di ciottoli, aggiungevamo nuovi capitoli a un romanzo di nostra invenzione, in cui «Emilio Cecchi» diventava un agente segreto, un cacciatore di dote, un illustre chiromante, il proprietario di favolosi bordelli e alla fine il padre illeggittimo di uno di noi due.

E fatemelo dire, maledetto il tempo che passa, maledetta la conoscenza. Dal 1980 sono tornato in Grecia almeno una quarantina di volte, e su Emilio Cecchi ho imparato molte cose, ho letto i saggi di Contini e Debenedetti, il «Meridiano» curato da Margherita Ghilardi. E magari perdessimo l’innocenza, come credevano i poeti romantici: più sciattamente, ce la dimentichiamo. E la conoscenza non è che il coperchio di questa rimozione. Ma lamentarsene è del tutto inutile. Per consolarmi, dico che anche la conoscenza ha le sue piccole magie. Proprio di recente mi sono reso conto che in quello stesso 1936 in cui apparve la prima edizione di Et in Arcadia ego Erwin Panofsky pubblicava in un volume dedicato a Ernst Cassirer uno splendido saggio intitolato «Et in Arcadia ego»: Poussin e la tradizione elegiaca. Quella di Panofsky è grande iconologia, applicata però alla storia di un errore di interpretazione. Il famoso motto (come Cecchi sapeva benissimo) appare per la prima volta in un quadro del Guercino dipinto tra il 1621 e il 1623. La spiegazione dell’allegoria morale è molto semplice: a due spensierati pastori d’Arcadia appare un teschio. «Et in Arcadia ego» significa: io, la morte, abito anche in Arcadia, non c’è un luogo così felice da essere affrancato dalle mie leggi.

Col passare del tempo, però, con poco rispetto della grammatica latina e grazie al genio di Poussin (che dedica al soggetto due quadri) il senso dell’affermazione cambia completamente. Al teschio di Guercino si sostituisce un sepolcro, e il motto che vi appare inciso prende tutt’altra direzione semantica, legando arbitrariamente «et» ed «ego». Adesso è il morto a parlare ai vivi, ricordando loro malinconicamente: anche io vissi qui in Arcadia.

Come osserva giustamente Panofsky, l’errore grammaticale corrisponde di più alla verità poetica di Poussin, che sapeva a memoria le Bucoliche ed era del tutto estraneo al tono di ammonimento morale del Guercino. Mi è venuta la curiosità di verificare quale delle due interpretazioni avesse accettato Cecchi scegliendo il vecchio motto come titolo del suo libro. Leggendo la nota bibliografica aggiunta alla prima edizione, e poi espunta nelle successive, Cecchi si dimostra molto informato sul soggetto, ma sembra accettare l’interpretazione sbagliata, accreditata da una citazione del vecchio Lanzi che traduce «Fui Arcade anch’io». Da questa matassa di minuzie mi sembra si possa ricavare che Cecchi, fidandosi per così dire di Poussin, è affascinato da quella che Panofsky definiva l’ispirazione «elegiaca» del grande pittore francese.

Nelle pagine del suo libro più abbandonate a una soggettività lirica, in effetti percepiamo una sorta di serena malinconia che rimarrà presente anche anche quando, dopo un nuovo viaggio in Grecia nel 1957, Cecchi allestirà una versione quasi raddoppiata del testo originale, uscita da Mondadori nel 1960. Ma negli scrittori veramente intelligenti l’elegia convive sempre felicemente con l’auto-ironia, e in fin dei conti il titolo del libro è solo una strizzata d’occhio, una specie di parodia: anche io, Emilio Cecchi, sono stato in Arcadia, ma vivo e vegeto.

Quanto a noi, nel 1980, non sapevamo nemmeno cosa fosse l’Arcadia. A ben pensarci, la Grecia del 1934 e quella del 1957 e quella del 1980 differivano solo in qualche particolare, e non nell’essenza. Tra le tante lezioni di sguardo che Cecchi ci impartiva, una riguardava proprio in famosi monumenti, o rovine che dir si voglia.

Cecchi apprezza molto il fatto che i resti dell’antichità siano meno «scontornati» che in Italia dal resto della realtà. Questa prossimità dell’antico e del quotidiano è qualcosa di asiatico, e Cecchi la coglie perfettamente, come un incremento di bellezza anziché come una profanazione. Come in questo perfetto frammento sulle rovine di Eleusi : «Raffinerie e saponifici lavorano nelle vicinanze. Sull’altura del museo, dal coperchio d’un sarcofago baroccamente scolpito di cacce tumultuose, si veggono spuntare grigi triangoli di capannoni industriali e ciminiere fumanti». Questa è stata esattamente, fino a qualche tempo fa e ancora in parte oggi, la bellezza greca: la sagoma di un saponificio che emerge dal coperchio di un sontuoso sarcofago. O se vogliamo, la pressione della vita che finisce per trionfare sul deprimente vuoto pneumatico dell’area archeologica.
Quando all’ombra dei portici interrati di Tirinto fummo nutriti e dissetati da un contadino che ci tagliava con il suo coltellaccio delle enorme arance, il libro di Cecchi ci aveva già insegnato a non pensare a quell’uomo come a un intruso, ma come al centro stesso della nostra emozione.

L’approdo a Epidauro

Quando finirono gli ultimi soldi, le cose si fecero più dure. Sull’euforia cominciò a prevalere il pentimento. Una cosa era leggere On the Road e I vagabondi del Dharma, un’altra sperimentarla davvero, la strada. Non tutti gli adulti erano affiliati alla Società della Torre, e a Nauplia cademmo nella rete di una comunità di libertini eroinomani che intendevano farcene di tutti i colori. Scappammo nel cuore della notte da una comune isolata su un monte, ma lasciandoci dietro il sacco a pelo e i vestiti stesi ad asciugare. Trovammo ancora la forza, guidati dall’indice di Cecchi, per arrivare a Epidauro, dove una volta i malati si addormentavano nella speranza di sognare Asclepio, come in un affollato ambulatorio onirico. Sugli spalti del teatro, incontrammo un uomo coi capelli già bianchi, il viso dolce e comprensivo: un commissario di polizia in pensione, un vecchio comunista.

Come quasi tutti i greci della sua generazione, parlava un italiano quasi perfetto. Ne aveva viste così tante, che capì al volo la situazione. Ci portò da lui, dove la moglie ci fece lavare e mangiare. Ci costrinse a telefonare a casa, dove ci vennero promessi castighi lunghi e complessi. Ma era l’estate di Ustica, e della stazione di Bologna, e gli adulti sentivano il loro stesso senso della realtà liquefarsi come sapone nelle mani. La mattina dopo il commissario ci portò a Patrasso, pagò per noi la tassa d’imbarco, ci diede qualche spicciolo e prima di tornare indietro ci disse una cosa che non scorderò mai. Certamente, premise, non vanno fatte cazzate, i genitori soffrono e stanno in ansia, e non è giusto. Ma suo figlio, aggiunse con un sorriso rassegnato, era diventato un tipo così noioso e prevedibile che a volte pensava di scappare lui, girando l’Italia in autostop. Magari un giorno lo avremmo incontrato al Colosseo, affamato e sudicio, e gli avremmo ricambiato il favore. Gli promettemmo una carbonara speciale e una bottiglia di Chianti, nel caso.

Prima di imboccare la passerella della nave, la mia amica lo abbracciò così forte che il vecchio orso baffuto si commosse. Il passato si allontana tanto da noi che anche le cose più reali diventano fantasie o vengono dimenticate. L’unico modo per evocarle ancora una volta è affondare le mani in quella che Cecchi chiama «l’argilla delle parole». Nient’altro ci consola così tanto della perdita di tutto, ed è capace di convincerci di essere stati vivi, di aver provato gioia e paura e stupore, e di essere pure tornati a casa.