All’inizio si chiedeva cosa volessero da lei quei due giovani registi che avevano iniziato a frequentarla con l’intenzione di fare un documentario sulla sua vita. Poi, li ha accolti, si è manifestata una fiducia reciproca e le riprese si sono succedute per un anno in un clima di rispetto, ascolto, comprensione. Il risultato è C’è un soffio di vita soltanto (da ieri nelle sale) e la protagonista assoluta, che racconta le tante vite vissute nel corso di quasi un secolo, si chiama Lucy Salani, transessuale di 96 anni, vive nella periferia bolognese in un appartamento decadente (lo è tutto il palazzo), non ha mai voluto cambiare il suo nome maschile, Luciano, da bambino fu abusato da un prete in un confessionale, poi subì la deportazione nel campo di concentramento di Dachau, sopravvisse e rinacque, fece spettacoli di varietà, trasformò quel suo corpo che sentiva femminile fin dall’infanzia.

A FILMARLA mentre racconta le tappe di un’intera esistenza, mentre compie consuete attività quotidiane in casa e nel quartiere, descritte nei dettagli, sono Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, già autori di Et in Terra Pax, loro opera prima del 2010, e de Il contagio (2017), tratto dall’omonimo romanzo di Walter Siti – entrambi i film hanno per set le periferie romane. Botrugno e Coluccini hanno trovato la chiave adatta in uno sguardo semplice, si sono messi «al servizio» di Lucy, delle sue parole, del suo volto, della sua incredibile memoria (anche quando recita poesie che scrisse da giovane), dei suoi ricordi drammatici (quando durante l’internamento fu costretta ad ammassare i cadaveri sulle carriole) così come dell’orgoglio delle sue scelte e della straordinaria energia che possiede ancora oggi nel porsi come figura di r/esistenza in un mondo che sta tornando a manifestare grevi intolleranze e a far sì che la sua esperienza assuma un valore di potente militanza. La sua vita è un esempio di combattimento, attaccamento, rivendicazione di quanto fatto. Bisognava allora non essere invadenti e far emergere con stile sobrio e intimo una moltitudine di emozioni per comporre sia il ritratto di una persona sia quello sociale e storico con profonda umanità. Ricorrendo, per l’apertura e la chiusura, e come interpunzione in alcune parti del film, a immagini d’archivio scientifiche, in bianconero, di magmi luminosi, eclissi, natura primigenia, in «omaggio» all’amore di Lucy per il cosmo (è appassionata di film, documentari, programmi che trattano questo argomento) che per lei significa desiderio di scoprire nuovi spazi. Afferma che non c’entra nessun Dio, che «Dio siamo noi, è la nostra volontà che comanda il mondo, siamo animali sulla Terra, per fortuna sono arrivata in fondo, almeno… ho potuto constatare che non vale la pena rimanere su questo pianeta, meglio andare negli altri a vedere se c’è del meglio, altre forme di vita».

MOLTO SPESSO, la voce di Lucy è narrante, mentre in campo accadono altri fatti, sempre comunque con lei al centro. E c’è ironia, in Lucy, che ha avuto per geografie principali della sua vita la provincia piemontese, Torino, Bologna. Dice, scherzando e fiera, di essere «un intruglio; se questo pianeta mi ha concepito così non l’ho chiesto, è la natura che si è ribellata, non so, era indecisa fra l’una e l’altro, e è uscito questo intruglio». Una voce necessaria, la sua, che in ogni inquadratura (i registi quando hanno usato materiali di repertorio lo hanno fatto lasciando fuori campo immagini di guerra o dei lager) ribadisce il senso di un’esistenza intera, quello che si incontra nella riga finale di una sua poesia («c’è un soffio di vita soltanto») e che dà il titolo a un film non solo da vedere, ma da diffondere come atto politico, testimonianza vibrante che parla di un impegno per i diritti da non smettere mai.