Nella cosmogonia Dogon, popolazione che abita nel cuore del Sahel arroccata nel suo altopiano nel Mali, è il semino del fonio, digitaria exilis, una varietà di miglio eccezionalmente resistente alla siccità – la semente più piccola che conoscano – a rappresentare la stella Sirio B nella tradizione orale tramandata e studiata da antropologi ed astronomi. Solamente in tempi moderni questa nana bianca è stata osservata e definita, ma i Dogon la conoscevano già e nella loro teogonia non è il solo elemento della natura ad essere presente. Laddove la danza rituale, la religione, la vita di tutti i giorni, sono strettamente connesse, anche la terra è trattata in maniera armonica e senza squilibri.

QUANDO SI PARLA DI desertificazione, l’avanzata di un mare di sabbia che uccide flora e fauna e determina gli esodi biblici ai quali stiamo assistendo – e sono gli uomini e le donne che finiscono in campi di concentramento libici o in fondo al Mediterraneo – in Occidente si tende ad attribuirne la cause agli africani stessi, presunti incapaci di fare fronte all’emergenza climatica. E’ pigrizia mentale e larvato razzismo.

Nulla di più falso. Parafrasando Franz Fanon, «i dannati della terra sono dannati perché senza terra». Le terre migliori in Africa Occidentale sono state riservate alla coltura dell’arachide, una essenza che, dopo la raccolta meccanizzata, lascia il suolo assolutamente scoperto. Non c’è solo questo. Ricordiamo che ai tempi dell’AOF, Afrique Occidentale Française, le foreste erano considerate bene dello Stato, quello francese ovviamente, e si pagavano tasse per la loro semplice esistenza. I contadini, spossessati e defraudati, non avevano alcun interesse nel curarle. Gli interessi stranieri, attenti a spingere solo le colture utili ai mercati mondiali, sono stati un fattore che ha provocato l’abbandono delle campagne, sottratto le terre migliori e innescato la tragica avanzata del deserto.

Eppure, non mancano esempi di lotta alla desertificazione, con mezzi semplici. Proprio come nel romanzo di Jean Giono L’uomo che piantava gli alberi, esiste un uomo che ha pensato di rovesciare il tavolo e lottare davvero contro il deserto. Esiste e non è solo. Yacouba Sawadogo, un fiero contadino burkinabè – quel Burkina Faso, già Alto Volta per i francesi, nome burocratico sul modello dei dipartimenti metropolitani, rinominato «terra degli uomini integri» dal capitano Thomas Sankara – proprio dai Dogon ha appreso la tecnica che gli sta permettendo di rinverdire la propria terra. Con un successo straordinario, visibile dai satelliti.

A GOURGA, NEL NORD DEL BURKINA FASO, Yacouba, ha adottato ed adattato la tecnica dello «zai». Era un commerciante, le cose non gli andavano affatto male, quando la carestia, indotta da squilibri climatici pazzeschi, lo ha costretto ad abbandonare le proprie terre non più coltivate e a spostarsi verso il sud insieme a masse sempre crescenti di popolazione. Egli ha capito che il problema era uno solo: non erano i soldi che avrebbero fermato il deserto ma gli alberi. Cancellate le assurde leggi coloniali, nello spirito nuovo determinato dall’avvento al potere del capitano Sankara, presidente amatissimo e assassinato in circostanze mai chiarite, Yacouba Sawadogo ha preso a riforestare. La tecnica dello «zai» consiste nell’operare in armonia con gli elementi naturali ed animali già presenti in natura. Si scavano delle buche, nell’imminenza della stagione delle piogge, vi si immette della sostanza organica o termiti, si provvede a seminare. Questa, in sintesi, la storia raccontata nel documentario di Mark Dodd The man who stopped the desert che spiega benissimo di cosa si tratta. Yacouba, sui suoi 23 ettari ha piantato e seminato con questa tecnica. Ha adottato sementi locali, ha lasciato che i vicini raccogliessero e in cambio essi si sono impegnati a restituire le sementi. Così un ciclo virtuoso ha preso inizio. E’ diventato, negli ambienti ecologisti mondiali, un esempio ed un mito. E’ stato invitato negli Usa a tenere conferenze dall’Oxfam, ha ricevuto innumerevoli riconoscimenti.

UNA ASSOCIAZIONE DI VOLONTARIATO, Watinoma – associazione nata nel 1999 in Burkina Faso e poi ripresa ed estesa in Italia proprio da Yacouba Sawadogo – ha appreso come coniugare elementi differenti e far rivivere il terreno a Koubri, un villaggio vicino alla capitale Ouagadogiou. Ci sono riusciti, felicemente, partendo da un appezzamento di due ettari. Watinoma gestisce una scuola per 170 bambini, gratuita, 50 donne aiutano la coltivazione e il prodotto finale viene venduto sul mercato locale. Watinoma è nata come associazione per lo studio e la pratica della danza africana e significa «accoglienza». Flora Tognoli, direttrice, ci spiega come la sua piccola associazione, aiutata dalla Tavola Valdese, proprio a Yacouba Sawadogo deve pratiche e idee per coltivare. E’ la terra la base sulla quale tutto si tiene. Qualche anno fa, nel 2012, Davide Losa, responsabile per l’agricoltura del progetto, con un avventuroso viaggio in motorino, si è recato di persona a trovarlo. Yacouba ha molti figli, è una sorta di autorevole patriarca, una persona che non è stata cambiata dai doverosi riconoscimenti ricevuti. Volentieri ha esposto, e chissà quante volte ha dovuto farlo, il suo modo tradizionale di coltivare. Watinoma sta portando avanti con successo, in buona armonia con la gente del villaggio di Koubri, questa bella avventura. Moringa, guaiava, pomme cannelle, amaranto, miglio, sorgo e il prezioso quanto invasivo neem: queste essenze locali e l’uso dell’acqua del pozzo scavato sono il segreto del successo.

Il neem, azadirachta indica, è sostenuto dall’attuale governo in quanto pianta capace di vivere con poca acqua e quindi utile a trattenere il suolo, oltre ad essere pianta riconosciuta nella farmacopea mondiale. Davide Losa chiese a Yacouba Sawadogo se fossero tante le istituzioni statali che andavano a trovarlo, lui rispose, sornione, «Mica tante, chi pretende di sapere non sopporta l’intelligenza degli altri».