C’è un tratto comune che cementa le reazioni stizzite che hanno pervaso l’establishment dell’Ue all’indomani del voto greco: il fastidio per la democrazia. Un fastidio atavico che è parte integrante del modo in cui il processo di integrazione europea si è venuto condensando in questi decenni. La questione del «deficit democratico» europeo, trattata marginalmente nei manuali di diritto, è finalmente esplosa. E i suoi effetti sono dirompenti.
Il discorso tenuto da Tsipras ieri al parlamento europeo prende atto di tale esito e ciò gli consente di rovesciare l’ordine del discorso. La questione che il premier greco pone ai leader europei non è più solo la Grecia e cosa la Grecia intende fare per l’Europa, ma la Ue e cosa la Ue intende fare per se stessa e per il suo futuro.
La pretesa di costruire l’Unione al riparo dei popoli è fallita e le istituzioni europee iniziano a comprenderlo. Potranno anche illudersi che la soluzione sia scacciare la Grecia dall’Unione, fare finta che nulla sia successo e provare così a ristabilire l’ordine. Ma il velo è oramai stato squarciato dal popolo greco e rattopparlo non è più possibile. Lo sarebbe stato se il governo greco avesse giocato la sua partita sulla difensiva, chiudendosi nel recinto delle «piccole patrie», esasperando i rigurgiti nazionalisti oggi drammaticamente presenti anche in Grecia, ponendo al popolo l’alternativa tra euro e dracma. I governi europei (in primis, il presidente Renzi) ci hanno sperato. Ma così non è stato.
La questione che Tsipras ha posto, indicendo il referendum, è la questione dell’Europa e del suo futuro. Che prima o poi ciò sarebbe successo era nei fatti. L’Ue ha in questi decenni provato ad arginare gli «eccessi democratici» del costituzionalismo del novecento smantellandone le forme e le sue conquiste più significative. E di tale insanabile rottura finanche la cd. costituzione europea (travolta dal voto referendario in Olanda e Francia nel 2005) ne portava impresse, nel suo corpo normativo, tutti i traumi. Basti pensare soltanto all’impianto semantico del Preambolo che al posto del mitico «We the People» della Costituzione americana del 1787, aveva preferito ostentare una sorta di beffardo «We the Kings (Queens) and Presidents of European Union», riproducendo poi in calce l’elenco integrale di tutti i presidenti e di tutte le teste coronate degli Stati dell’Unione europea. Un espediente verbale assai poco in linea con la tradizione del costituzionalismo democratico, ma tuttavia del tutto coerente con l’assetto istituzionale dell’Unione. Un assetto debole, esposto agli impulsi dell’antipolitica, e in ragione di ciò sguarnito di quelle procedure di partecipazione indispensabili per governare il conflitto, come il caso greco oggi dimostra.
Ed è, invece, proprio dal conflitto che bisogna ripartire per costruire la nuova Europa. E per provare a ridefinire originalmente, su basi democratiche, il rapporto tra prima e dopo, tra dentro e fuori, rompendo gli angusti schemi che hanno in questi anni drammaticamente alimentato la contrapposizione tra creditori e debitori, tra cittadini ed stranieri, tra comunitari ed extracomunitari.
Sia però ben chiaro. Costruire il futuro dell’integrazione non vuol dire però che l’Europa debba voltare riottosamente le spalle al suo passato. Perché è evidente che nessun progetto di integrazione sarà mai possibile se ci si isola dal passato, se ci si sottrae cioè all’onere di fare i conti con quelle che sono le contraddizioni, la storia, la dimensione politica e costituzionale di un popolo o di un intero continente.
Ma la dimensione costituzionale dell’Europa non va però rintracciata nell’acquis communautaire, nei Trattati, nelle sentenze della Corte di giustizia, nelle risoluzioni dei Comitati come gran parte dei politologi e taluni studiosi di diritto si ostinano ancora oggi a fare. La sua identità costituzionale risiede, piuttosto, nel suo modello sociale, in quella che è stata in passato la sua originale capacità di piegare gli assetti della produzione capitalista alle istanze dell’eguaglianza sociale, nella sua sperimentata attitudine a regolare le dinamiche del mercato vincolandole al perseguimento di politiche redistributive e alla tutela (invenzione tutta europea) dei diritti sociali.
Per realizzare tale prospettiva l’Europa deve tornare ad assumere un ruolo attivo sul piano politico, ponendo immediatamente fine alle tiritere sulla produttività, la flessibilità, lo smaltimento integrale dei debiti. D’altronde sono stati proprio questi gli ingredienti che hanno in questi anni determinato il naufragio del «sogno europeo».
L’Europa ha oggi bisogno di una nuova politica. Una politica all’altezza delle sfide che la (post)modernità le pone, ma allo stesso tempo capace di farsi carico dei drammi sociali dell’intero continente: dalla condizione dei migranti al vertiginoso aumento delle disuguaglianze sociali, dalle questioni ambientali alla disperata espansione delle aree di povertà. Vere e proprie distorsioni del sistema che l’intransigente ostentazione del rigorismo finanziario imposto dalla troika ha, in questi anni, contribuito ad accrescere oltre misura.