Anche il silenzio dei leader, caduto sui semiclandestini ballottaggi di oggi, conferma che gli equilibri politici che poggiavano su tre poli incomunicanti sono già diventati precari. I protagonisti della stagione parlamentare avviata nel 2013 sono accomunati da una precoce tendenza all’usura. La fuga dei cadaveri viventi dalle battaglie simulate che si svolgono nelle città svela quanto illusoria sia stata la interpretazione del voto amministrativo come una resurrezione del bipolarismo del tempo che fu.

Sul fronte destro la ripresa competitiva che si registra nel primo turno ha il volto principale della Lega securitaria, sovranista e anti islamista. La fretta un po’ grottesca con cui Berlusconi, tra cani e agnelli, si precipita a rivendicare la paternità di un successo annunciato non cancella le difficoltà della destra. Frantumata al suo interno, come tutte le aree politiche, naviga a vista e non riesce a tracciare una efficace strategia condivisa.

Se il gioco nel 2018 si svolgerà con un meccanismo maggioritario, il Cavaliere dovrà mantenere in vita una armata coalizionale. Deve cominciare ad oliarla nei meccanismi arrugginiti con la consapevolezza di non poterla guidare. La premura, che più lo tormenta, è di impedire che a condurla alle trincee sia Salvini.

Un leghista diverso, con la fama di pragmatico amministratore e il volto di politico moderato potrebbe risolvere le grane di un’intesa che rimane difficile ma è nella forza delle cose.

Ma, se alle politiche si voterà con una formula proporzionale, le grandi manovre per rintuzzare le insane pretese alla leadership di un alleato scomodo, e per lanciare una coalizione competitiva, perdono ogni pregnanza. E Berlusconi, che proprio su questo scenario di frantumazione scommette, è pronto al pantano del trasformismo per incassare gli attestati di politico responsabile sul quale contare nelle emergenze parlamentari. In cambio del negoziato attende le solite cose che interessano un capo d’azienda.

I tre poli si sono dissolti in parlamento perché sono cadute le linee ideali e le fratture sociali che segnavano la distanza tra gli attori. E le consuete confluenze in aula tra Pd e Fi non sono soltanto degli occasionali sostegni offerti per garantire la sopravvivenza dell’esecutivo traballante. Sembrano la conferma di un processo di radicale deideologizzazione che spegne le differenze programmatiche, annichilisce le ragioni costituzionali del contendere. La grande bonaccia trasformistica, nella quale le truppe del Pd e di Fi convergono a primavera, potrebbe però non bastare per garantire i numeri al governo dei responsabili.

Il Pd infatti pare assai sovrastimato nei sondaggi. E la terra promessa di un incontro strategico con Berlusconi (le cui premesse furono gettate nell’incontro di Arcore del 2010) non assicura un forte recupero di consensi. Questo non significa che il Pd sia, come è stato osservato al Brancaccio, un partito della destra. Il Pd è un partito personale-populista fortemente deideologizzato con la sola mitologia del potere a fare da collante per un ceto politico incolore, senza cultura, identità, referenti sociali.

Non più in grado di delineare una alternativa di sistema pare ormai il M5S, assente nei ballottaggi, con le grane di gestioni amministrative disastrose e senza più a disposizione la carta primitiva della totale estraneità alla casta del potere. I suoi parlamentari sono dentro i meccanismi, godono dei privilegi e dei costi della politica, rinviano ad oscure dinamiche micro aziendali, a centri occulti di eterodirezione. Con la verginità perduta, non possono ripetere la stessa sceneggiata dello tsunami tour perché il grido di rivolta: tutti a casa, li coinvolgerebbe, come gli altri politicanti.

C’è spazio per una nuova sinistra. La necessaria politica di alternativa al Pd non si prospetta però con semplificazioni analitiche (mai alleanze, processo a condotte criminogene dei protagonisti di un ventennio) e con immagini di estraneità al ceto politico che paiono ormai batterie spente. Le simbologie della società civile sembrano carte impallidite in un sistema alla deriva in cui Renzi non si presenta come un politico ma come un “ragazzo di provincia”. Madia si vanta da sempre per aver portato in politica “la sua inesperienza” e i grillini predicano tutta la loro ostilità alle classi dirigenti di qualità in nome del principio che “uno vale uno”. Nella crisi strutturale del M5S e del Pd renziano occorrerebbe rilanciare i valori della grande politica.

Per Gramsci (Quaderni, p. 1140) la politica nei regimi di massa non è altro che «l’efficacia e la capacità di espansione e di persuasione delle opinioni di pochi, delle minoranze attive, delle élites».

Se queste élite con una cultura critica e di classe ci sono nelle residue organizzazioni della sinistra si mettano all’opera, in quel processo costituente che Asor Rosa ha invocato, per la ricostruzione di un grande soggetto, senza nascondersi dietro le effimere adunate dal basso, da cui nulla nasce di durevole oltre i tormenti di sopravvivenza per l’appuntamento elettorale imminente.

Se intanto, tra il fuoco amico, oggi cadesse Genova, per l’immaginario della sinistra sarebbe una tragedia.