Tra i tanti processi di secolarizzazione e tra le tante derive vincenti che riducono la secolarizzazione a pragmatismo cinico (chi baratterebbe oramai un buon pareggio di bilancio con una sana illusione?), forse il pensiero della fine conserva ancora una qualche aura, non sempre teologica ma almeno di sacro. Non si sa mai molto bene, infatti, quale sarà il lascito di una «striscia di senso», fosse essa una storia o una vita. Già è difficile non perdersi nel cammino che porta verso il finale, già è difficile immaginare il finale e ancor più difficile vederlo realizzato come lo si sarebbe immaginato. Figurarsi, poi, saper rispondere anzitempo alla domanda: e dopo? Che poi non è una domanda bensì l’angosciante richiamo a una scelta, a un’azione.
Per fortuna, ma anche inevitabilmente, nella maggior parte dei casi l’esperienza della fine non pone la questione del dopo in modo cupo e minaccioso, radicale e perentorio. Del resto, non si muore soltanto. Ma è proprio per questa fortuna, che specialmente nelle storie e nelle narrazioni si ripresenta e ripete continuamente, che la fine rappresenta, adombra e nasconde, anche solo per magica captazione, la fine più temuta.
Che la fine sia una figura e un’immagine da cui dipendono le scelte dell’umanità, anche quelle più minute, individuali o collettive che siano; e che la condivisione delle fantasie – e fantasticherie – sia una sottotraccia profonda che fa da coagulo alla socializzazione e al consumo culturale; e che il controllo dell’immaginario della fine possa essere di fatto un tremendo strumento di potere, sono tutte cose che traversano l’insieme di capitoli con i quali Giorgio Bertone, in un gradevolissimo libro e per niente angosciato di dare risposte ai crucci del pensiero della fine, propone un’estesa e profonda carrellata: The end. Il finale dei film (pp. 152, euro 15, Il Melangolo).
Decine di pellicole famose vengono rievocate, analizzate e comparate, sempre alla ricerca delle condizioni che la fine impone alle storie. Tanto cinema americano, soprattutto western, con un’attenzione speciale per le trasmutazioni e gli aggiornamenti di questo genere (dai grandi classici come Ombre rosse, 1939, di Ford al Butch Cassidy, 1969, di Hill; dal Grinta di Hathaway, 1969, a quello dei fratelli Coen, 2010, per esempio), ma soprattutto attenzione per ciò che produce e si propone come racconto epico (da Into the Wild, 2007, di Penn, a Dances with Wolves, 1990, di Costner, da Thelma and Louise, 1991, a Blade Runner, 1982, entrambi di Scott). Epica, che è sempre la narrazione di una civiltà, della sua identità e dei suoi limiti, siano quelli del tempo (la fine, appunto) o dello spazio (la frontiera, il confine). E non poteva infatti mancare una serrata interpretazione del più finale dei film sulla fine, Apocalypse Now (1979, Coppola), con le sue diverse e divergenti versioni. Una delle più controverse pagine della storia coloniale americana, presa come pretesto per far vedere cosa non possa vedere l’occhio e la mente di chi pensa che tutto quel che esiste sia incluso nei limiti del proprio orizzonte (come già era stato nel conradiano Heart of Darkness).
Già di per sé, è bello navigare con l’immaginazione tra questi film, ripensare le loro «morali», che si suggellano o nascondono nei finali, rivedere i volti dei grandi interpreti, il loro ultimo sguardo, sentir riecheggiare le battute più celebri, che magari firmano il film; e il lampeggiare delle scene madri, quasi sempre nel finale, da cui dipendono lo srotolarsi dei ricordi, delle emozioni e dei ragionamenti. In questo approccio, come si diceva, la sollecitazione della memoria personale si lega a considerazioni assai generali sul destino dell’epica nella cultura contemporanea che, nei suoi media di massa, sembra riprendere le forme epiche del passato, compreso il rapporto che i poemi antichi e moderni costruivano con i propri uditori e lettori. Insomma, il cinema è riuscito a conservare caratteristiche epiche più di quanto abbia potuto o voluto fare il romanzo moderno.
Oltre a quella dell’epica, nel libro emerge un’altra linea interpretativa e critica di grande interesse e importanza, che riguarda il rapporto tra immagine e immaginazione. La fine è sempre stato terreno, quasi privilegiato, della visione, nel senso della visionarietà, come anche ricordava un libro di Michele Cometa, Visioni della fine (Palermo, :duepunti, 2004), che faceva incrociare cinema, letteratura ed arte nella rappresentazione delle apocalissi. E negli ultimi anni, l’umanità è sopravvissuta a due profezie catastrofistiche, quella di fine millennio («mille e non più mille») e quella dei Maya (la fine del calendario). E tanti eventi hanno trasmesso un senso di fine, di svolta, di punto di non ritorno. Lo spettacolare attentato al WTC del 2001, gli tsunami del 2004 e del 2011, seguito quest’ultimo dal disastro della centrale atomica, ripresi tutti da centinaia di angolazioni diverse, riproposti in migliaia di occasioni, hanno quasi dato corpo visibile all’immaginario della fine, diventato immagine concreta e plausibile, anzi verificata, ormai cosa certa e documentata. Sono, questi, momenti apicali di una medesima tendenza che percorre tutto il Novecento, e di cui il cinema è stato protagonista, cioè di dare forma di immagine (documentaria) all’immaginazione.
Per questo, il discorso di Bertone finisce fatalmente, e con ottime motivazioni, a intrecciare una comparazione tra i finali della letteratura e quelli dei film, come avviene nel capitolo dedicato a The Truman Show, 1998, di Weir, e al Moby Dick di Melville. Perché c’è il sospetto che questi ultimi (i film) abbiano definitivamente rubato ai primi (i romanzi) il potere di narrare l’immagine e tramite l’immagine. Come se fosse ormai tramontata l’era in cui il testo scritto aveva la forza riconosciuta di distendere il racconto nel tempo e cercare una fine.