A Parigi è successo qualcosa di storico. Anche se il testo approvato dai 195 capi di stato non è quell’accordo vincolante e ambizioso che servirebbe a fermare i cambiamenti climatici al di sotto della soglia dei 2°C – e tantomeno al di sotto di 1,5°C -, comunque mette in moto un processo necessario, anche se non ancora sufficiente, a centrare l’obiettivo.

La coalizione, presentata a sorpresa negli ultimi giorni, che riunisce Ue, Usa e Paesi africani, cui si è aggiunto poi il Brasile, porta a casa la citazione dell’obiettivo a 1,5°C (mai rientrato finora in nessun testo).
E porta inoltre a casa un riferimento all’obiettivo di raggiungere emissioni nette nulle nella seconda parte del secolo. Questo secondo obiettivo, vera questione su cui si sono scontrati i diversi interessi in campo, pur scritto in modo non privo di ambiguità (e del resto nessun trattato è del tutto privo di ambiguità) è rilevante.

Infatti, facendo riferimento all’analisi scientifica dell’Ipcc ha però un’implicazione logica: la necessità di eliminare le fonti fossili entro il 2050 e azzerare le altre emissioni entro il 2080, come analizzato dall’Ipcc e sottolineato dal Programma Ambiente delle Nazioni Unite (Uned) di recente. In questo senso, come ha dichiarato Kumi Naidoo, direttore di Greenpeace International, l’accordo mette dalla parte sbagliata della storia i produttori di fonti fossili.
Sul versante dei contributi finanziari, i 100 miliardi di dollari all’anno dal 2020 al 2025, che successivamente dovrebbe essere aumentato, non è adeguato alle necessità dei Paesi poveri che pagano e pagheranno i costi più alti dei cambiamenti climatici. Né i riferimenti ai popoli indigeni sono sufficienti, non essendovi un impegno preciso contro la deforestazione, aspetto cruciale per molti di quei popoli.

La Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici, principale esito della Conferenza di Rio del 1992, rimane nei fatti l’unico vero tavolo negoziale per tentare una governance globale oggi. Dunque ha a che fare anche con le prospettive di pace su scala globale a medio-lungo termine, e il processo che esce da Parigi può consentire di orientare le politiche pubbliche. Tutto ciò non basterebbe a dare speranza se non avessimo, allo stesso tempo, tecnologie e misure che possono dare una risposta sia ai cambiamenti climatici che a maggiore equità e accesso alle risorse energetiche. Su questo c’è oggi ampia consapevolezza, come testimonia un recente rapporto di Goldman Sachs che identifica quattro tecnologie che, in virtù della loro costante riduzione dei costi, possono cambiare le cose: il solare fotovoltaico, l’eolico a terra, i sistemi di illuminazione Led e i veicoli elettrici. Anche se mobilità sostenibile non significa assolutamente solo auto elettriche, queste ne fanno parte.

Nel motore di un’auto elettrica ci sono una dozzina di pezzi e non quasi duecento come in un motore a benzina o diesel. Il punto cruciale per entrare in modo consistente nel mercato sta nel costo e nell’autonomia delle batterie, e nell’esistenza di una rete di ricarica. I costi delle batterie stanno rapidamente scendendo e al contempo cresce la loro capacità, mentre la rete di ricarica è una infrastruttura da sviluppare ma ampiamente fattibile. Inoltre avere auto che si collegano alla rete per ricaricarsi sarà una componente che potrà interagire utilmente nelle nuove reti intelligenti. Questa evoluzione è tecnologicamente fattibile e vicina, con buona pace di Marchionne.

Un cambio di paradigma energetico è già in corso, pur se variamente ostacolato dagli interessi fossili ancora ben presenti nel mercato e nelle politiche, e l’accordo di Parigi dà un riferimento e consente di accelerare un processo e una direzione. Speriamo il governo Renzi si adegui finalmente, cessando di ostacolare le rinnovabili e promuovendo trivelle in ogni dove.

Come già scritto in queste pagine, di per sé quest’accordo da solo non basta e va considerato un punto di partenza: la partita vera per una grande trasformazione energetica e ambientale dell’economia inizia adesso. E non sarà comunque una partita facile.

* direttore Greenpeace Italia