Ha ragione Luciana Castellina quando sostiene che il titolo del suo articolo del 30 luglio scorso «Il silenzio dei pacifisti» era fuorviante. Eppure quel titolo è profondamente e drammaticamente vero. Colpisce come un pugno nello stomaco. Luciana cerca le ragioni di quel silenzio: la frustrazione per il senso di inutilità di tante manifestazioni compiute, la mancanza di un riferimento politico comune, la latitanze del governo (nazionale, ma io aggiungerei europeo). Eppure, dice Luciana, la società italiana è vigile e attiva, «e allora perché non riusciamo a dare a tutto quello che pure c’è capacità di incidere, di contare?».

Su questa domanda dovremmo aprire una riflessione collettiva.
Luciana è fin troppo buona, direi quasi assolutoria, verso di noi, associazioni, movimenti, tavole, reti, che si riconoscono nei valori della pace. Il silenzio c’è e pesa come un macigno. Noi siamo rimasti schiacciati tra inadeguatezza soggettiva e vastità e profondità dei cambiamenti.

Partiamo da questi. Da anni ci troviamo immersi in una guerra mondiale strisciante, non dichiarata, permanente. Una guerra mondiale che miete vittime come tutte le guerre, ma che parla linguaggi diversi dal passato, dove le vittime non sono solo sul luogo del conflitto ma anche, in decine di migliaia, tra le acque del Mediterraneo, poco a sud di Lampedusa. Noi ci stiamo dentro da anni eppure la nostra attenzione esplode solo ora, quando in prima pagina torna il dramma di Gaza e la guerra israelo-palestinese. E Libia, Siria, Iraq, Ucraina, solo per citare i conflitti che circondano l’Europa? Come se ci fossero guerre di serie A e di serie B.

Anche con questo dobbiamo fare i conti. In questi anni poi la crisi economica ha provocato l’aumento delle disuguaglianze, creando le condizioni per l’esplosione di nuovi conflitti, aggravati dal progressivo ed insistente peggioramento delle condizioni climatiche, che, oltre a creare centinaia di migliaia di profughi ambientali, inseriscono tra le cause di conflitto, accanto a quelle storiche e alle nuove persecuzioni etniche e religiose, la desertificazione, il controllo delle risorse idriche, l’approvvigionamento energetico.

Di fronte a questi stravolgimenti c’è una forte responsabilità soggettiva. Siamo rimasti legati a vecchie modalità di azione e di pensiero, quando invece c’era bisogno di discontinuità. Luoghi importanti come la Tavola della Pace sono rimasti irretiti in formule rituali, più attenti ai progetti che al rilancio politico e culturale del movimento. Di fronte ai conflitti armati e alla violenza contro donne, giovani, dissidenti, il movimento pacifista italiano è rimasto silenzioso spettatore.

Eppure, come ricorda giustamente Luciana, l’Italia è ancora ricca di effervescenza sociale, ma manca una sede di connessione, quello che fino a qualche anno fa è stato il Social Forum, che riuscì a costruire un comune sentire. Oggi ognuno è chiuso nel suo cortile.

Possiamo reagire al clima di assuefazione e rassegnazione e ai tanti localismi, se insieme rilanciamo un movimento popolare per la pace, radicato e diffuso nei territori, consapevole delle nuove sfide, capace di chiedere impegni precisi all’Italia e all’Europa, a cominciare dal blocco della vendita di armi. Occorre una grande azione culturale e politica, ed una grande capacità di condivisione, perchè la pace e il rifiuto della violenza tornino ad essere valori inossidabili e mobilitanti per milioni di persone.

Con questi intenti, molte organizzazioni attive nella Tavola della Pace hanno dato vita alla Rete della Pace e pensiamo che sia assolutamente necessario costruire una grande mobilitazione nazionale a settembre, anche in preparazione della marcia Perugia – Assisi, prevista per il 19 ottobre. Ricominciamo a farci sentire.
* Presidente nazionale Legambiente