Verso l’imbrunire i soci in giallo e quelli in verde seduti da sei giorni intorno al tavolo per stilare un contratto di governo che potrebbe passare per le mani del notaio, oltre che per quelle del capo dello Stato, si abbracciano. Il parto delle loro fatiche è pronto. Restano in sospeso sei capitoletti non proprio secondari sui quali l’accordo ancora latita. A Salvini e Di Maio l’onere di quadrare il cerchio nella notte.

“Ci sono ancora appena sei righe”, minimizza Rocco Casalino. I punti in discussione rappresentano in realtà il grosso del programma di un governo: rapporti con la Ue, che M5S vorrebbe ricontrattare in maniera più morbida e il Carroccio a muso duro, immigrazione, sviluppo e grandi opere Tav incluso, sicurezza. In sé sarebbero tutti elementi tali da mettere l’accordo a rischio. Ma la sensazione, nettissima, è che la boa sia stata oltrepassata e che a questo punto sottoscrivere il contratto sia inevitabile per entrambi i leader.

A imprimere la svolta, martedì notte, è stata l’accettazione da parte di Di Maio di una posizione più rigida, anche se non ancora quanto vorrebbe Salvini, sul nodo dei rapporti con la Ue. Ma è stata anche l’offensiva della Commissione europea. Il fiato di Bruxelles sul collo ha messo i due partiti nella necessità di chiudere prima di trovarsi accerchiati dalle pressioni europee. La reazione di entrambi i leader a quelle pressioni è stata ieri dura. “Il Financial Times ci ha definito barbari: meglio barbari che schiavi”, tuona in diretta Fb il leghista. “Facciamo paura agli eurocrati. Ma non ci spaventiamo”, duetta il pentastellato, che ha ormai messo da parte i toni rassicuranti adottati per mesi riscoprendo la grinta euroscettica.

Ma ai ruggiti corrisponde in realtà massima prudenza. Dalla versione definitiva del contratto sono spariti i due punti che avevano fatto suonare le sirene d’allarme sia a Bruxelles che sul Colle, dove la prima bozza del documento era arrivata lunedì sera. Non si parla più di uscita dall’euro né di referendum. E’ stato totalmente riscritto il passaggio, in un certo senso ancora più esplosivo, sulla cancellazione di 250 miliardi di euro dal debito italiano: l’11%. Ora, annuncia direttamente il responsabile della Lega per l’economia Borghi, “c’è semplicemente la richiesta di un cambio di regole contabili per cui i titoli acquistati dalla Bce di tutti i Paesi europei non contino per il calcolo del rapporto debito/Pil”.

Ai sei punti di programma in via di definizione ne va aggiunto un settimo, il più determinante di tutti: la scelta del premier da cui discende quella dei ministri. In mattinata Salvini reclama per il Carroccio il ministero degli Interni e quello dell’Agricoltura. Non fa nomi ma per il Viminale pensa a se stesso: “Se avessi la certezza, anche non da premier, di poter fare cose utili per il Paese mi metto in gioco e se serve faccio anche un passo a lato”. Poco dopo Di Maio ripete che del governo potrebbero non far parte né lui né il collega padano.

 

Forse i due considerano davvero l’eventualità, ma in serata rientrano nella squadra in postazione centrale: Salvini agli Interni, Di Maio agli Esteri. Palazzo Chigi andrebbe a un 5S, ma non al leader. La rosa è composta da quattro petali: Bonafede, Carelli, Fraccaro e Toninelli. E’ possibile però che il capo di M5S non si sia ancora dato per vinto. Potrebbe tornare in campo, non nei prossimi giorni ma dopo la consultazione on line degli iscritti, annunciata ieri ma senza indicare una data, e dopo il responso dei gazebo che la Lega allestirà nel week-end, imitata probabilmente da M5S.

A compensare il peso della premiership in giallo, potrevve tingersi di verde il ministero dell’Economia, con Giorgetti.

Ma in questo caso, come per gli Esteri, Mattarella avrebbe l’ultima parola e Giorgetti, in caso di pollice verso, slitterebbe verso la postazione di sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Il Quirinale, nonostante i dubbi avanzati nei giorni scorsi, non ritiene possibile sbarrare la strada del Viminale a un segretario di partito di maggioranza.

Mattarella aspetta di vedere il programma nella sua versione definitiva prima di intervenire, pur con l’abituale discrezione. Come ha probabilmente già fatto con la prima bozza.

Ma c’è un altro verdetto in sospeso: quello di Berlusconi. Ieri, dalla riunione di Sofia del Ppe, il leader azzurro, la cui riabilitazione è ormai definitiva dato che il Pg non ricorrerà in Cassazione, ha sfoggiato le nuove vesti super-europeiste: “Non c’è nessun complotto. L’Europa ci vuole aiutare”.

Toni opposti a quelli adoperati da Salvini. Del resto le capogruppo Gelmini e Bernini avevano già bocciato senza appello la prima bozza del contratto. Ora Berlusconi dovrà leggere anche lui la versione finale. Ma è sempre più tentato dal votare contro il governo sin dal primo momento.