Fu la Pietà scolpita per il cardinale francese Jean Bilhères de Lagraulas a rendere noto per l’Italia il nome di Michelangelo. L’artista, che allora viveva povero a Roma, apponeva la sua firma sul marmo per timore – racconta Vasari – che la scultura, già secondo contratto la «più bella opera di marmo che sia hoge in Roma», fosse creduta di mano del lombardo Cristoforo Solari detto il Gobbo. Da quel momento la Pietà vaticana, legata al nome del suo artefice, diventa la più celebrata rappresentazione del tema, un monumentale gruppo marmoreo che trova un confronto quasi immediato con i capisaldi della scultura antica. L’origine dell’iconografia va però cercata in un contesto lontano dalla città eterna e dai suoi colossi, nella Germania al principio del Trecento, quando l’immagine di Cristo morto nel grembo di Maria sollecitava la meditazione, di marca domenicana, sulle sofferenze della Vergine sotto la Croce.
L’origine di questa tipologia e la sua evoluzione, fino alla riflessione michelangiolesca che ne diventa l’emblema, è affrontata in una mostra visitabile gratuitamente fino al 13 gennaio nelle sale dell’Antico Ospedale Spagnolo del Castello Sforzesco di Milano.
Lo spunto è stato di Salvatore Settis, la messa a punto di Antonio Mazzotta e Claudio Salsi, coadiuvati da Agostino Allegri e Giovanna Mori. È un’esposizione che cerca di ricomporre, in tutta la sua profondità, la genesi iconografica di uno dei capolavori di Michelangelo a pochi passi dall’ultima, straziante, opera del maestro, la Pietà Rondanini. Una mostra davvero civile che ha messo in campo un’imponente ricerca storico-artistica della quale non si sente la gravità ma i risultati, chiariti e mai banalizzati da un avvicinamento graduale per contesti, lungo ponti di senso, legami di stile, ragionamenti aiutati da un allestimento – di Andrea Perin – che alla facile spettacolarizzazione ha preferito la sobrietà della concentrazione, illuminando le opere singolarmente, calandole in un’ambientazione blu-violacea che evoca la luce vespertina.
I primi Vesperbilder, letteralmente «immagini dei vespri», appaiono nella Germania del Trecento in coincidenza con l’emergere di un filone della mistica domenicana che medita sulle sofferenze della Vergine ai piedi della Croce. Il percorso della mostra si apre, infatti, con una pietà lignea proveniente dalla valle del Reno e oggi alla Liebieghaus di Francoforte sul Meno: la Madonna, seduta sulle rocce del Golgota, tiene in grembo, adagiato a un sontuoso manto ricoperto di foglia d’oro, un Cristo rimpicciolito, svuotato di vita, come sfuggita dalle ferite da cui sgorga copiosamente il sangue.
La diffusione di queste immagini segue le ramificazioni dell’ordine domenicano nel continente o le vie dei mercati e degli scambi culturali: così la tavola di Simone dei Crocifissi, oggi al Museo Davia Bargellini di Bologna. Il committente, morto nel 1368 e probabilmente proveniente dall’Alto Reno, era forse uno dei tanti stranieri legati al contesto cosmopolita dell’università felsinea. Il Vesperbild si lega così alla morte e alla sepoltura del committente: una costante, soprattutto al di qua delle Alpi.
Dal primo Quattrocento le chiese italiane sono invase da Vesperbilder nordici, dalla Val d’Ayas alla Basilicata. Sono produzioni seriali, a volte di alta o altissima qualità come quello in pietra calcarea proveniente con buona probabilità dalla Boemia, oggi dal Museo di San Domenico a Bologna, o il preziosissimo Vesperbild in alabastro del Maestro di Rimini prestato dal Victoria & Albert, esposto al Castello accanto a un esemplare del Louvre di dimensioni maggiori ma riferibile alla stessa bottega. Una differenza di misure e finitezza dettate anche dalle posizioni diverse alle quali i manufatti sono stati originariamente destinati, come oggetti per la pubblica devozione piuttosto che per l’uso privato.
Oltre la pietra, il legno, l’alabastro, le evoluzioni tecniche hanno permesso di ampliare la rosa dei materiali possibili favorendo una produzione più serrata di duplicati; il Vesperbild compare inoltre nelle illustrazioni xilografiche o su oggetti piccoli e preziosi come i codici miniati. È un vero e proprio trapianto diretto, senza mediazioni, digerito gradualmente da artisti e committenti italiani che si appropriano di questo schema iconografico con Cristo e la Vergine isolati solo dalla metà del Quattrocento, in pittura e scultura. Il Vecchietta ne fa, con Donatello negli occhi, una Pietà in legno di noce dipinto: la rigidità ancora nordica dei precedenti è sciolta in un corpo di Cristo dalla misura naturale, frutto di una riflessione sull’arte antica. Perugino giovane, ancora fortemente influenzato da Verrocchio, cala il Vesperbild in una gola di roccia lontana dal Golgota, svincolandolo dalle esigenze narrative in un Compianto giovanile concesso dalla Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia, un tempo gonfalone del convento francescano di Farneto. Giovanni Bellini ne fa una Madonna con il Bambino con un Cristo dal corpo già maturo, abbandonato mollemente sul grembo della madre.
Il Vesperbild alla tedesca si trasforma, insomma, in una Pietà all’italiana, funzionale a una devozione dal tono più assorto, legata a una lettura più intima e meno cruda della morte. L’avvicendamento alla scultura michelangiolesca nelle sale dell’Ospedale Spagnolo passa quindi per le fantasie metalliche dell’«Officina ferrarese»: dalla Pietà di Francesco Del Cossa del Jacquemart-André, una contaminazione di espressività nordica e idee donatelliane, alla Pietà del Tura oggi al Correr; fino a richiamare, con una Pietà su carta di Ercole de’ Roberti, la «meza Roma de bontà» che era, per Michelangelo, la cappella Garganelli in San Pietro a Bologna. Una Bologna che lo scultore lascia sul finire del 1495 dopo aver lavorato all’arca di San Domenico nella chiesa omonima, portandosi a Roma «una tenace e profonda memoria» delle cose viste.
Alla fine della mostra appare quindi naturale che Michelangelo, nel figurare una «Vergine Maria vestita con Christo morto in braccio» con una precisa connotazione funeraria e per un committente d’Oltralpe, ricorra allo schema nordico del Vesperbild riducendolo «a quella perfezzione che la natura a fatica suol formar nella carne». A sostituire l’originale della Pietà vaticana, ovviamente irremovibile, c’è un bel calco del 1975. L’esposizione si chiude sulla prima traduzione a stampa della scultura, incisa da Antonio Salamanca, probabilmente su disegno di Nicolas Béatrizet, nel 1547: il gruppo è inserito in un edificio in rovina come fosse un reperto antico. Le radici tedesche del soggetto sono ormai solo un ricordo.