«Quel che di essa mi aveva da subito avvinto era quella percezione del colore rosso lì dove nulla, assolutamente nulla, la rende possibile, nello spessore di un bianco e nero di lastra fotografica: dunque qualcosa di soprannaturale, il significante di una trascendenza». Questo sintomatico passaggio, dominato dalla contrapposizione di alcuni colori, è tratto da La sciarpa rossa seguito da Due scene e note annesse (La nave di Teseo «le polene», pp. 240, € 19,00), singolare ricognizione autobiografica di Yves Bonnefoy, originariamente apparsa presso il Mercure de France nel 2016 pochi mesi prima della sua scomparsa. La traduzione è di Fabio Scotto, cui si deve la ragguardevole curatela del «Meridiano» L’opera poetica (2010), nonché di altre emblematiche raccolte dell’autore di Movimento e immobilità di Douve. Ispirandosi ad alcuni frammenti poetici scritti di getto nel 1964 in cui rievoca una serie di situazioni composite, Bonnefoy si avventura alla ricerca di un senso che possa connotare certe immagini ricorrenti, quasi sfuggite controvoglia al controllo di una memoria senza alcunché di svagato: un albergo di Tolosa, le figure dei genitori, una maschera della Nuova Guinea acquistata da un antiquario e restituita il giorno dopo perché «mi fece paura».
Sembra di attraversare «le porte di un mondo misterioso come il sogno, porte che non sapevo se d’avorio o di corno», come avverte lo stesso autore che si addentra in questo «libro d’esegesi e anamnesi» come in un viaggio compiuto a ritroso, un tentativo di approfondire il proprio passato al fine di decifrarne alcuni snodi irrisolti ed esorcizzarli. La sciarpa rossa è l’elemento unificante di questo processo, un feticcio che sembra unire padre e figlio, ribaltandone i ruoli, disseminando le pagine delle reiterate richieste di aiuto con parole che possono essere scandite solo sottovoce, come quelle sgranate in un rosario.
I lineamenti del padre sfumano in quelli del figlio e solo il tempo sarà in grado di sciogliere gli intrecci che tengono avvinte entrambe le figure alla madre, irretite come sono nella ragnatela di un’irrimediabile afasia. Descritti con un’essenzialità di taglio giacomettiano (ma non si dimentichino i capisaldi Morandi e Hopper), tali lineamenti si configurano alla stregua di quel processo di rastremazione del logos che tende a riportarli impietosamente alla luce, facendoli collimare con un silenzio creaturale la cui estensione «magmatica» assume connotazioni metafisiche.
L’intento è quello di passare in rassegna elementi fortemente differenziati: da una «ballatetta» di Cavalcanti, in cui si rievoca una donna di Tolosa, alle reminiscenze infantili di Nelle sabbie rosse di Léon Lambry; dalle digressioni su un antico palazzo genovese alla rievocazione della temperie surrealista. Sarà la visione della Pietà, conosciuta anche come Rivoluzione di notte, un enigmatico quadro di Max Ernst del 1923, a rappresentare il «lavoro del negativo» che porterà l’autore a dar vita alla rivista «La Révolution la nuit», fondata nel 1946 («due esili quaderni gravati da innumerevoli malintesi» cui seguirà, parecchi anni dopo, l’esperienza collettiva di «L’Éphémère»). Nelle due figure presenti in questo dipinto, in cui si vede un uomo monocromo, dotato di bombetta, che tiene in braccio un giovane raffigurato per contrasto con pantaloni di un rosso squillante, Bonnefoy riconosce il rapporto ambivalente, di ascendenza freudiana, istituito con il padre: «quell’uomo in secondo piano nel quadro portava gli stessi abiti di mio padre, lo stesso silenzio, la stessa triste distanza in seno all’innegabile affetto».
La Danae di Rembrandt
D’altronde le rigide regole dell’automatismo bretoniano non potevano soddisfare le esigenze di un autore teso al superamento di quelle istanze espressive, in virtù di una riappropriazione della parola che riconoscesse nelle prerogative del sogno non più un immaginario erotico perturbante ma la stessa adesione alla quotidianità che serpeggia in Rembrandt quando ritrae Danae nell’attesa di essere ingravidata da una pioggia d’oro: «Non si può dire in modo migliore che Danae è la poesia». La frequentazione di Pierre Jean Jouve, in contrasto con l’algida eleganza di Valéry, risulta in tal senso esemplare. Ma si pensi anche alle pagine dedicate al Graal, all’abbecedario, agli aspetti rurali della cultura occitana di cui si mettono in rilievo addentellati storici e linguistici ormai rimossi dalla globalizzazione.
Quasi contemporaneamente appare Nell’inganno della soglia (il Saggiatore, pp. 184, € 23,00), una delle più importanti raccolte poetiche di Bonnefoy, pubblicata, sempre dal Mercure de France, con il titolo Dans la leurre du seuil nel 1975. La versione di Scotto si differenzia rispetto a quella allestita da Diana Grange Fiori nella «bianca» einaudiana nel ’90, poi confluita nella lezione succitata dell’Opera in versi, caratterizzandosi per una maggiore aderenza all’originale. È significativo che il titolo stesso della silloge sia mutato rispetto al precedente Nell’insidia della soglia e che il curatore impieghi, per tradurre «leurre», il più pertinente «inganno», memore forse dell’assunto esegetico di Starobinski che si pone «tra la denuncia di un “inganno” e la tensione verso la meta». La raccolta, composta tra il 1969 e il 1974, segna un punto di svolta capitale nella poetica di Bonnefoy, orientandosi verso una pronuncia più libera e articolata rispetto alle precedenti prove di Douve, Hier régnant désert e Pierre écrite, nonostante permanga lo stesso rigore espressivo, rivolto ad approfondire aspetti di carattere gnoseologico. Lo stesso Bonnefoy rileva: «Nell’inganno della soglia è un libro interamente occupato dall’esperienza della casa di Valsaintes, dalla felicità che ha dato, dal dispiacere di averla persa, e da quel che ha significato sul piano della vita quotidiana ma anche della riflessione sulle forme fondamentali dell’essere al mondo».
La metafora della soglia diviene allora una sorta di riflessione metapoetica, «scrivere è cercare di varcare una soglia, quella dell’indicibile, scontrarsi a una porta coriacea, ingannevole, chiusa», come evidenzia il curatore.
Suddivisa in sette lunghe sezioni in cui molto presente è la suggestione del poemetto di taglio narrativo, dall’approccio comunque «impervio», la raccolta inaugura una nuova stagione nell’opera di Bonnefoy che condurrà, tappa dopo tappa, a quell’ideale testamento costituito da L’Heure présente (2011). Il frequente ricorso all’anafora, alla catafora, all’anadiplosi, all’ossimoro, in un contesto necessariamente eterometrico, contraddistingue un dettato attraversato da una serie di figure ricorrenti che si manifestano in forma frammentaria, a tratti folgorante: «Io il mandorlo / Entro agghindato nella stanza nuziale»; «Ed ecco, il bambino / È qui, nel mandorlo / In piedi / Come molti vascelli che giungano in sogno». Osserva ancora Scotto nell’introduzione: «Le immagini si succedono, in una cecità vedente, che è quella di un essere abbagliato dalla luce di un luogo che parla attraverso la muta eloquenza dei suoi rovi, delle sue cime, delle sue pietre, dei suoi tuoni e lampi». Nonostante l’articolata ripartizione del testo e il timbro aspro e dissonante, il libro si configura come un armonioso disegno composto di innumerevoli tessere musive (referti, reperti) che si dispone sapientemente a modulare il biancore scaturito dal vacuum mallarmeano.
La gnosi di un ateo
Il linguaggio, talvolta mediato dal lessico religioso (si pensi alla lunga frequentazione con l’opera di Šestov e Kierkegaard ma anche alla curatela del Dizionario delle mitologie e delle religioni), costituisce l’originale apporto di un ateo interessato alla gnosi, sviluppando una sorta di «teologia negativa» che, tuttavia, non inficia un costante anelito alla speranza, in contrapposizione con gli esiti neri della Waste land eliotiana: «vorrei quasi identificare la poesia e la speranza». La parola dovrà dunque «Crescere trasfigurata nell’alba del senso», al fine di rapportarsi in maniera costruttiva a una realtà sempre più indecifrabile e sfuggente, della quale si cerca di superare il «limite del dire» attraverso un souffle che in sé conservi e rifugga una balbuzie di tipo celaniano, per «riposarvi le parole ferite». Non a caso Michèle Finck parlerà, riferendosi a topoi agresti e divinità ctonie, di «pastorale ferita». E un riferimento alchemico, presente in La sciarpa rossa, ci ricorda che «finalmente c’è dell’oro nel crogiolo del linguaggio».