Neanche il tempo di tagliare il nastro alla Domus del Criptoportico – il primo dei cantieri di restauro del Grande Progetto Pompei del Mibact portato a termine il 27 febbraio – che la pioggia di marzo provoca nuovi crolli al Tempio di Venere, in una bottega in Via Nola e nella tomba di Lucius Publicius Syneros presso Porta Nocera. E mentre la nomina di Massimo Osanna – soprintendente designato in gennaio – è ancora appesa alla risoluzione della Corte dei Conti, il neo-ministro per i Beni Culturali Dario Franceschini ha dovuto convocare una riunione che definire d’emergenza è eufemistico.

Da circa un anno, infatti, la situazione è di stallo assoluto. Nonostante la struttura amministrativa voluta da Massimo Bray, il Grande Progetto Pompei resta impigliato nella follia delle leggi che regolano gli appalti pubblici. Il risultato è che ci sono cinque cantieri aperti, ciascuno dei quali ha dei motivi di criticità e una programmazione che vorrebbe spingersi fino al 2015, data entro la quale dovranno imperativamente essere consegnati i lavori finanziati dalla CE con 105 milioni di euro. Ma qual è il futuro di Pompei? Lo abbiamo chiesto a Fabrizio Pesando, docente di Antichità Pompeiane ed Ercolanesi all’Università di Napoli L’Orientale e autore di numerose pubblicazioni sulla città vesuviana.

Nel suo discorso programmatico al Senato, Matteo Renzi ha affermato che sulla cultura è necessario aprirsi a investimenti privati. Negli stessi giorni l’Ambasciatore del Kuwait in Italia si è detto pronto a investire nella valorizzazione di Pompei. A cosa andremo incontro con il nuovo governo?

Ogni giorno c’è una dichiarazione, è un momento di grande incertezza, nel quale manca persino un sistema di comunicazione “concordato”. Per quanto riguarda gli investimenti, bisognerebbe anzitutto capire a quale ambito verrebbero destinati. Se ai restauri, agli scavi o invece – cosa che sta in cima ai pensieri dell’amministrazione comunale – al territorio. Dal punto di vista delle risorse da impiegare nell’area archeologica, non ci sono mai abbastanza soldi, ma il problema – semmai – è saperli gestire. Ciò che fa difetto è una vera e propria strategia di valorizzazione del sito, che non si limiti alla risistemazione delle domus. Il primo atto di qualunque soprintendente dovrebbe essere la riapertura dell’Antiquarium, inagibile dal terremoto del 1980. È giusto che il visitatore capisca che oltre alle rovine di età romano-repubblicana e imperiale, c’è una città arcaica ed ellenistica. È necessario restituire, anche attraverso gli oggetti, una visione complessiva del sito. A tutt’oggi, inoltre, ci sono pochi monumenti aperti al pubblico e i turisti sono spesso vittima delle guide locali, le quali scelgono l’itinerario che più gli va a genio. Anni fa, la Soprintendenza approntò una piccola guida cartacea e una mappa da distribuire a ciascun visitatore ma i contenuti non sono aggiornati ed è paradossale che nell’epoca della tecnologia non esista un’App dedicata che consenta di accedere real time a informazioni corrette. Gli investimenti dei privati, dunque, possono starci ma la vera sfida è avere idee vincenti per la tutela e la promozione di Pompei.

Pompei però non è solo disastri. Quali sono le ricerche e gli studi scientifici in corso?

A partire dagli anni ’80 ci siamo concentrati sulle domus: la Casa del Labirinto, della Fontana Piccola, quelle che avevano architetture complesse e apparati decorativi rilevanti. Poi, c’è stato un periodo in cui abbiamo ragionato per isolati, scegliendo zone abbandonate come la Regio VI, in gran parte chiusa al pubblico. Sono state realizzate schedature analitiche, documentando non solo le fasi archeologiche ma anche lo stato di conservazione. Abbiamo pubblicato cinque isolati in diversi volumi. Malgrado ciò, Pompei resta sostanzialmente inedita. Ci sono studi molto dettagliati su affreschi o altri reperti ma manca una visione urbanistica d’insieme. L’obiettivo che portiamo avanti è quello di condurre delle indagini mirate alla conoscenza del processo di formazione della città. Siamo stati noi a riconoscere cosa si celasse sotto gli strati del 79 d.C., scavati da Amedeo Maiuri tra gli anni ’30 e ‘50. Abbiamo trovato i resti della città arcaica, individuato un abbandono o una contrazione urbana risalenti al V secolo a.C. e una ripresa verificatasi nel IV secolo a.C. Inoltre, al di sotto delle quote utilizzate a partire dal II secolo a.C., abbiamo scoperto case e edifici privati in buono stato. Una città nella città, insomma.

Possiamo essere ottimisti sulla salvaguardia di Pompei?

La vera notizia è che la Casa del Fauno sia ancora in piedi, il vero miracolo pompeiano è che ci siano quaranta ettari di superficie con monumenti che non hanno subito ancora gravi crolli. «Prevenire è meglio che curare» è uno slogan che ben si adatta anche all’archeologia e quest’area avrebbe potuto trasformarsi in un grande cantiere di sperimentazione sul restauro, un modello da applicare in seguito al resto del patrimonio italiano. Perché è sulla tutela di Pompei e Roma che si gioca la sopravvivenza dell’archeologia italiana. Il Grande Progetto Pompei interverrà su alcune domus, come la Casa della Venere in Conchiglia e quella cosiddetta di Octavius Quartius ma ci sono almeno un’altra decina di edifici in stato di degrado avanzato e verso i quali non c’è stata alcuna attenzione. Né il Ministero ha recepito le indicazioni dell’Unesco. I danni più gravi, inoltre, avvengono negli spazi chiusi al pubblico. Dobbiamo essere onesti: il sito ha subito bombardamenti durante la seconda guerra mondiale, gran parte del patrimonio di Pompei è andato perduto, altro sparirà. Ormai bisogna agire operando una selezione di ciò che vale davvero la pena preservare e trasmettere. Lo scenario, in un futuro assai prossimo, sarà una zona pubblica con una ventina di domus adeguatamente conservate e una zona “rudere”, della quale – per fortuna – ci resterà la documentazione che abbiamo raccolto in anni di studio.