A Roma non ce l’hanno fatta, ce l’hanno fatta però a Torino, Napoli, Milano, Bologna e Savona. C’è una sinistra a sinistra della sinistra che non ha mai creduto nelle coalizioni, negli Arcobaleni, nemmeno in Tsipras. Neanche a dirlo, sono gli ormai leggendari trozkisti di Marco Ferrando, l’ex professore di filosofia approdato nella Rifondazione comunista delle origini dopo essere passato per la Lor, Lega Operaia Rivoluzionaria, poi per la Lcr, Lega comunista rivoluzionaria, poi per Democrazia proletaria. Ma uscito dal Prc nel 2006 dopo essere stato sbianchettato dalle liste per alcune indigeribili posizioni sullo Stato di Israele e sul «diritto alla resistenza dei popoli invasi» scambiate per elogio del terrorismo. «Falso e pretestuoso», si sgola lui. Ma sono storie per cultori. Da cui comunque nasce il Pcl, il «Partito Comunista dei Lavoratori». Che nonostante il vento contrario della storia sia bora, tifone, uragano, non molla. E anche a questo giro piazza la sua falcemartello nella scheda. Rigorosamente in solitudine, che loro chiamano «autonomia». I candidati: Alessio Ariotto avvocato del lavoro a Torino. Natale Azzaretto insegnante a Milano. Ermanno Lorenzoni ferroviere in pensione a Bologna. Paolo Prudente dipendente comunale a Napoli. Giorgio Barisone disoccupato a Savona, città natale del fondatore.

Non c’è nessuna possibilità di sommare questi voti con quelli del resto della sinistra: perché, oltre alla scontata premessa generale sul «fallimento del capitalismo» il giudizio su chi governa è senza sfumature: da Renzi a Hollande a Tsipras a livello nazionale, da Fassino a Marino a Pisapia sul piano locale «è tutta la stessa miseria», giura Ferrando. «Tutte le sinistre che si candidano a governare nel rispetto delle regole del sistema sociale e istituzionale si condannano a gestire politiche di attacco alla propria base sociale». E così «ovunque le giunte arancione sono state la continuità dell’esistente. Il fatto che in diverse città ( non in tutte) Sel abbia scelto nel nuovo quadro politico nazionale di presentarsi autonomamente dal Pd con cui ha amministrato finora (e continua a amministrare in altre città) rivela solamente una spregiudicatezza trasformista. Non certo coerenza di principi e riferimenti di classe».

Ergo l’unica via è la costruzione «di una sinistra anticapitalista e rivoluzionaria», è la conclusione. «Non abbiamo l’ambizione di governare questo sistema, ma di rovesciarlo». Perché quella del «buon governo riformatore» è solo «un’illusione, un’utopia da combattere». E «i lavoratori, i precari, i disoccupati richiedono tutti la rottura di quelle compatibilità». Che dalla «nazionalizzazione senza indennizzo e sotto il controllo dei lavoratori delle aziende che licenziano o inquinano» e dall’«abolizione del debito pubblico verso le banche» scende giù per li rami locali verso «il controllo pubblico su tutti servizi privatizzati o esternalizzati, l’assunzione di tutti i lavoratori precari delle amministrazioni locali, l’abolizione di ogni finanziamento pubblico alla scuola privata o alla sanità privata». Ma appunto, per farlo «serve un governo di rottura, l’unico governo al quale siamo interessati a partecipare.

Per questo Ferrando chiama alla «mobilitazione rivoluzionaria dei lavoratori e della maggioranza degli sfruttati». In subordine, per il momento, chiama alle urne, nelle quattro – anzi cinque – città in cui si presenta.