Fino al 2003, la Cassa Depositi e Prestiti aveva svolto, per oltre 150 anni, un unico compito: raccogliere e garantire il risparmio postale dei cittadini, e utilizzare la massa di denaro raccolta (attualmente 252 miliardi) per finanziare a tassi agevolati gli investimenti dei Comuni.

Dalla sua privatizzazione – oggi è una Spa, con all’interno le fondazioni bancarie – Cdp ha smesso di svolgere questa funzione pubblica e sociale, e si rivolge agli enti locali per favorirne la privatizzazione dei servizi pubblici locali e l’alienazione del patrimonio pubblico, con il paradosso di utilizzare il risparmio dei cittadini per espropriarli dei loro beni comuni. Nel contempo, ha enormemente allargato il suo raggio d’azione, divenendo la più importante leva finanziaria dell’economia del Paese, con il difetto di scelte d’azione totalmente sottratte alle istituzioni elettive (il Parlamento) e unicamente appannaggio del Consiglio di Amministrazione da una parte, e delle urgenze -difficile chiamarle scelte- del premier dall’altra.

Un nuovo terreno di espansione si sta aggiungendo in questi mesi: l’Ilva di Taranto. Cassa Depositi e Prestiti ha inviato nel febbraio scorso la propria manifestazione di interesse, dichiarando l’intenzione di partecipare ad una cordata di imprese, con il ruolo di azionista e «investitore di riferimento». Lo può fare? Secondo l’art.3 del proprio Statuto no. L’articolo prevede infatti «l’assunzione, anche indiretta, di partecipazioni in società di rilevante interesse nazionale – che risultino in una stabile situazione di equilibrio finanziario, patrimoniale ed economico e siano caratterizzate da adeguate prospettive di redditività».

E’ il caso dell’Ilva? Decisamente no.

Ilva ha accumulato 3 miliardi di debito dal 2012 e perde circa 2,5 milioni al giorno; ha un debito verso le banche pari a 1,5 mld (Intesa San Paolo 62%, Unicredit 20%, Banco Popolare 18%) e potrebbe dover restituire gli aiuti di Stato sin qui ricevuti, per violazione dell’art. 107 del Trattato di Funzionamento dell’Ue.

Anche i possibili acquirenti di Ilva, in un contesto mondiale di eccesso certificato di capacità produttiva del settore siderurgico (Wall Street Journal), non sembrano navigare in acque tranquille: Arcelor Mittal ha perso 7,9 miliardi di dollari nel 2015, mentre Marcegaglia ha debiti per1,6 miliardi; la stessa Cdp ha registrato nel 2015 un “rosso” di 900 milioni.

Siamo dunque di fronte ad un’operazione speculativa, tesa ad investire denaro pubblico, e soprattutto i risparmi dei cittadini, per salvare le perdite delle banche e vendere, purchessia, un’azienda sotto processo e i cui impianti più inquinanti sono sotto sequestro (anche se con l’incredibile facoltà d’uso consentita dalla legge!), al fine di proseguire una produzione in deroga all’autorizzazione integrata ambientale, in più punti non rispettata.

Contro questa operazione, si è recentemente costituito a Taranto il comitato «Ilva non con i nostri risparmi – Comitato disinvestimento da Cdp» (www.peacelink.it), che promuove la campagna per raccogliere e diffondere dichiarazioni di cittadini che non vogliano più investire nei Buoni Fruttiferi Postali, i cui soldi andrebbero all’Ilva nel caso in cui Cdp entri nella cordata per rilevarla.

Un’iniziativa da sostenere, sia sul tema specifico – Cdp andrebbe molto più utilmente utilizzata per la creazione di un fondo di riconversione per l’avvio di attività economiche alternative che possano impiegare durevolmente, e in salute, i lavoratori dell’Ilva – sia sul terreno più generale della necessità di riappropriarci della ricchezza sociale che ci appartiene e che non può essere consegnata agli interessi speculativi portati avanti dall’attuale gestione della Cassa Depositi e Prestiti.