Perché i principali esponenti del governo Lega-M5S stanno discutendo così animatamente per stabilire chi controllerà la Cassa depositi e prestiti? Cosa si nasconde dietro la guerra delle nomine che in queste ore si sta conducendo nelle stanze del premier Giuseppe Conte e del ministro del Tesoro Giovanni Tria, controllati a distanza ravvicinata da Luigi di Maio e Matteo Salvini?

La domanda potrebbe sembrare retorica ma non lo è perché come ormai tutti sanno attorno alla Cassa depositi e prestiti si gioca una parte importante della politica economica del governo Conte e dunque una parte essenziale della politica europea che come è noto ha messo da anni al bando gli aiuti di Stato alle imprese. Si tratta cioè di capire se la Cdp resterà, come è avvenuto in questi anni e come vorrebbe Tria, una banca pubblica che si limita a dare un sostegno alle piccole e medie imprese o se tornerà ad essere, come vorrebbero Di Maio e Salvini, quello che dal fascismo fino alla fine degli anni ’90 fu l’Iri. Sono due strade assai diverse. Ed è su questo terreno che la maggioranza di governo verrà messa alla prova nella politica economica. Dietro la guerra delle nomine dunque si gioca una partita più grossa. E non è escluso che alla fine di questa guerra sotterranea il ministro del Tesoro ne esca o vittorioso o sconfitto.

Ma vediamo più da vicino che cosa è la Cdp. Una cassaforte pubblica che custodisce 300 miliardi di euro di risparmi postali degli italiani e che vanta un patrimonio di 410 miliardi. Una banca di Stato che opera all’interno del sistema economico con un’operatività molto simile a quella di una banca d’affari. Un potente strumento di politica economica che allarga i suoi tentacoli dalla politica industriale a quella finanziaria. Insomma, una specie di Mediobanca dello Stato, controllata per l’83% dal Tesoro e per il restante 16% dalle fondazioni bancarie. I liberisti la vedono come il fumo degli occhi perché ricorda troppo da vicino l’Istituto per la ricostruzione industriale, (Iri), strumento principe di Mussolini per arginare la crisi industriale e bancaria del 1929 e nel dopoguerra strumento di potere dei grandi boiardi di Stato fino alla fine degli anni ’90. Gli interventisti alla Di Maio e alla Salvini la vedono invece come un sano ritorno al passato, quando l’Europa non considerava un “reato” gli aiuti di Stato e il capitale pubblico poteva mettere il naso nell’economia dei privati.

Il principale impiego delle risorse finanziarie della Cdp è rappresentato dai prestiti verso lo Stato e le amministrazioni locali e dall’investimento nel capitale di rischio di imprese italiane che operano anche all’estero e dalla partecipazione in progetti immobiliari, infrastrutturali e finanziari ritenuti strategici per lo sviluppo dell’economia nazionale. Un esempio recente di come la Cdp potrebbe intervenire nella politica delle imprese è rappresentato dal caso Tim. Per fermare la scalata di Vivendi alla compagnia telefonica italiana la Cdp ha acquistato una partecipazione in Telecom del 4,9%, quota acquistata all’inizio dell’aprile scorso, quando il titolo della compagnia telefonica valeva intorno agli 80 centesimi. Negli ultimi giorni il prezzo delle azioni è precipitato a 60 centesimi: i minimi da 5 anni. La capitalizzazione complessiva, che misura il valore di Borsa dell’intera società, è quindi scesa in questi due mesi da circa 17/18 miliardi agli attuali 12,4. Un calo intorno al 25% che ha ridotto il valore della la partecipazione di Cdp da circa 800 milioni a 622 milioni di euro.

Con la stessa logica il governo Conte vorrebbe intervenire, attraverso la Cdp, sull’Alitalia, in modo da preservare alla compagnia di bandiera la proprietà pubblica. Le recenti dichiarazioni del ministro Toninelli sui destini dell’Alitalia vanno in questa direzione e non è escluso affatto che anche nel monumentale caso Ilva la Cdp possa svolgere un ruolo importante. Insomma, dalle ceneri ormai sotterrate dell’Iri potrebbe tornare un nuovo soggetto di politica economica, tanto caro a Cavour che forse però non piacerà all’establishment di Bruxelles.