«(…) Ma ciò richiama anche un altro fondamentale problema e cioé se in effetti non si stia portando Cassa ad operare su di un terreno ai margini del perimetro statutario». Così si conclude la relazione di fine luglio della Corte dei Conti in merito all’attività di Cassa Depositi e Prestiti, ormai messa in campo per qualsivoglia intervento economico o finanziario.

Giova ricordare come Cdp, fino alla sua trasformazione nel 2003 in Spa, con l’ingresso nel capitale sociale delle fondazioni bancarie, avesse un unico compito: sostenere, basando le proprie risorse sul risparmio postale, gli investimenti degli enti locali con finanziamenti a tasso agevolato.
Una funzione pubblica e sociale senza se e senza ma.

Oggi, non solo Cdp –sempre utilizzando il risparmio postale dei cittadini- si offre agli enti locali come partner per favorire l’alienazione del patrimonio pubblico e la privatizzazione dei servizi pubblici locali, ma è diventata una piovra dai mille tentacoli che intervien su tutte le scelte economiche e finanziarie del Paese, ovviamente senza alcun indirizzo da parte del Parlamento, che pure dovrebbe darlo per legge.

Ma su quali novità la Corte dei Conti ha finalmente deciso di «fare le pulci» a Cdp e al governo?

Il sostegno a banche e imprese indipendentemente dal perimetro statutario. Perché lo statuto di Cassa Depositi e Prestiti, fino a prova contraria, prevede che gli interventi di sostegno all’economia – attraverso il Fondo Strategico Italiano (FSI)- debbano sempre avvenire attraverso «partecipazioni in società di rilevante interesse nazionale in termini di strategicità del settore di operatività, di livelli occupazionali, di entità di fatturato ovvero di ricadute per il sistema economico-produttivo del Paese e che risultino In una stabile situazione di equilibrio finanziario, patrimoniale ed economico e siano caratterizzate da adeguate prospettive di redditività».

Non sembra proprio il caso della partecipazione di Cassa Depositi e Prestiti alla cordata con Arvedi e Delfin (AcciaiItalia) per rilevare gli asset dell’Ilva; né della duplice operazione che, prima nel 2015 (Fondo nazionale di risoluzione – Banca Etruria) e poi nel 2016 (Fondo Atlante -Banco Popolare di Vicenza/Veneto Banca) l’ha vista coinvolta in cordate di garanzia e salvataggio di Istituti bancari.

Di fatto, Cassa Depositi e Prestiti ha mutato completamente il proprio ruolo, divenendo la leva finanziaria dei grandi interessi che determinano le politiche economiche sotto la religione del pensiero unico del mercato.

Lo può fare? Fino a prova contraria, la natura di bene comune della Cassa Depositi e Prestiti risulta evidente dalla provenienza del suo ingente patrimonio, che per oltre l’80% deriva dalla raccolta postale, ovvero è il frutto del risparmio dei lavoratori e dei cittadini di questo Paese.

Tale natura è del resto anche giuridicamente sostenuta dall’art.10 del D. M. Economia del 6 ottobre 2004 (decreto attuativo della trasformazione della Cassa Depositi e Prestiti in società per azioni ) che così recita: «I finanziamenti della Cassa Depositi e Prestiti rivolti a Stato, Regioni, Enti Locali, enti pubblici e organismi di diritto pubblico, costituiscono servizio di interesse economico generale». Che oggi, al contrario, operi come un fondo sovrano dentro l’economia di mercato è il frutto di scelte politiche e non di processi ineluttabili. Solo mettendo in campo con forza la necessità di un altro modello sociale, si potrà finalmente porre con determinazione non solo la riappropriazione dei beni comuni naturali e sociali, bensì anche dei beni comuni economici, ovvero della ricchezza sociale collettivamente prodotta ed oggi espropriata per mantenere un sistema economico che favorisce i pochi a discapito di tutte e tutti.