Si chiama «Obiettivo discarica zero» il rapporto recentemente elaborato dal centro studi della Cassa Depositi e Prestiti e pomposamente pubblicizzato come «La cura Cdp: come risparmiare 1,2 miliardi nel business dei rifiuti». Leggendolo, verrebbe da dire come un primo elemento di risparmio si sarebbe potuto realizzare evitando di investire risorse in ricerche come quella prodotta, decisamente obsoleta dal punto di vista scientifico.

Chiara sin dal titolo l’intenzione: se si afferma come problema unico e fondamentale lo smaltimento in discarica dei rifiuti solidi urbani, si sottintende come tutte le altre opzioni, a partire dall’incenerimento, siano praticabili.

Come se ormai da più di un decennio non fosse in campo, sia dal punto di vista scientifico, sia da quello delle pratiche concrete, fatte proprie da migliaia di città e di comuni nel mondo (un centinaio in Italia) l’opzione «rifiuti zero», ovvero la prospettiva che, contestando tanto il conferimento in discarica quanto l’incenerimento dei rifiuti, agisce secondo i principi della riduzione a monte, della raccolta differenziata spinta, del riuso e del riciclaggio. E come se in Parlamento non fosse depositata una legge d’iniziativa popolare che chiede l’adozione di questa opzione su tutto il territorio italiano.

Ed ecco la diagnosi di Cdp sull’estremo ritardo del nostro Paese nell’adottare politiche decenti in tema di rifiuti: «Abbiamo un quadro normativo confuso e contraddittorio, con obiettivi che non sono chiari: le dimensioni delle imprese continuano ad essere troppo ridotte e i processi aggregativi languono. Una situazione in cui i fenomeni di infiltrazione della malavita proseguono, creando un’economia parallela, che vale quanto quella regolare. In tutto questo, la crisi della finanza pubblica ha ridotto gli investimenti e le banche non sono disponibili a finanziare visto il ritardo dei pagamenti». Ragioni per cui, nel nostro Paese, sono oggi attivi «solo» 49 «termovalorizzatori» contro i 130 della Francia e i 31 della Danimarca.

Come già nel precedente studio, prodotto da Cdp lo scorso anno, sul trasporto pubblico locale, la via di uscita proposta segue sempre gli stessi criteri di fondo: a)la crisi della finanza pubblica viene presa come un dato oggettivo (nessuna responsabilità del patto di stabilità, dei tagli ai trasferimenti etc.); b)i beni comuni e i servizi pubblici vanno unicamente valutati per la capacità di produrre dividendi per i grandi azionisti finanziari (quindi, ben vengano i termovalorizzatori); c)la territorializzazione dei servizi è negativa, servono pochi campioni nazionali in grado di competere nel regno della concorrenza internazionale; d)le esigenze e le conseguenti proteste delle popolazioni sono fattori che ostacolano la modernizzazione del Paese.

Aspettiamoci dunque che, come già sta accadendo con l’ingresso di Cdp nelle società che gestiscono l’acqua per favorirne le aggregazioni e il rilancio in Borsa, anche nel campo dei rifiuti Cdp si trasformi nel braccio finanziario che risolleva le sorti delle grandi lobby dell’incenerimento, immettendo capitali che queste ultime non vogliono più garantire.

Resta una domanda: per quanto tempo ancora continueremo a permettere che i nostri risparmi postali (240 miliardi di euro) consegnati a Cassa Depositi e Prestiti, vengano utilizzati a servizio dei grandi interessi finanziari, invece che essere messi a disposizione della costruzione condivisa e dal basso di un altro modello, che parta dalla riappropriazione sociale dei beni comuni?