Per una impresa tanto raffinata da rasentare la gratuità occorreva un generoso giornalista della «New York Review of Books», Michael Robbins, che si prendesse cura di pubblicare i versi da secoli dimenticati di Margaret Cavendish, seconda moglie del duca di Newcastle, che visse e scrisse nel drammatico Seicento inglese: Margaret Cavendish (NYRB Poets, New York 2019, pp. 124, € 14,40). È stata la più bistrattata, ridicolizzata («Mad Madge») tra le sue contemporanee aristocratiche e puritane che pubblicarono diari, biografie, lettere, e manuali di giardinaggio. Margaret si distinse per la quantità e la fantastica varietà della sua produzione: dalla filosofia, alla fiction, alla poesia mescolando l’una con l’altra, sempre cercando di aggiustare il suo orizzonte ermeneutico, affinare la sua sensibilità poetica, procedendo imperterrita sulla base del sapere che accumulava durante le tante conversazioni ascoltate in famiglia e in casa di amici. Il fratello John era uno dei fondatori della Royal Society, il cognato Charles Cavendish vantava un salotto frequentato da eminenti personaggi come Hobbes, Kenelm Digby, e occasionalmente Cartesio, Mersenne, Gassendi. C’era di che nutrire una fantasia ingenua e spericolata come la sua, cresciuta in una bella e numerosa famiglia di ferma fede monarchica, e spedita dalla straordinaria madre a corte come damigella d’onore della regina Henrietta Maria. La dovette seguire, benché riluttante, in esilio a Parigi nel 1644. E fu la sua fortuna, perché incontrò un uomo eccezionale sia per le sue doti che per i suoi errori, il grandioso, donchisciottesco marchese di Newcastle, di vent’anni più vecchio di lei. Adorabile, malgrado la testarda incapacità di comprendere la realtà politica in cui interveniva con esiti disastrosi per il suo re, lo sfortunato Carlo I Stuart, giustizato a Soho nel 1649.

Amava inventare vestiti
Virginia Woolf descrive con affetto le velleità estetiche di quella provinciale di tanti secoli fa: la sua mania di inventare vestiti , i suoi, quelli della servitù, e forse anche le «casacche bianche» dei poveri contadini arruolati dal marito per fronteggiare le forze ben armate e istruite di Cromwell, l’imbattibile New Model Army. La sua puerile vanità è confermata dall’incisione commissionata ad Abraham van Diepenbeeck, e riprodotta nel frontespizio: la duchessa è fiancheggiata da Apollo e Minerva che la guardano ammirati. Una mezza dozzina di saggi di filosofia naturale permettono di individuare la sua posizione: materialista, vitalista, panpsichista, e ovviamente antimacchinista: tutto si muove e muta non secondo regole matematiche, ma biologiche. Sulla condotta di umani, animali, piante si fondano le sue speculazioni, quando non si riferisce direttamente ai fenomeni botanici illustrati in Gerald’s Herbal, l’unico libro scientifico che ammise di aver letto. Il torrente dei suoi versi, in rigidi distici eroici a rima baciata, si fa anche carico della richiesta di risarcimento di un nobile castello rovinato dalla guerra, dei pesci che si pongono domande filosofiche, e delle formiche che offrono un ottimo esempio di coesione sociale. Commovente è la patetica fine della tenera lepre Wat e vibrante l’accusa a quei cacciatori che dei loro stomaci fanno tombe di creature a cui Dio diede vita e sensibilità.
Ma vale la pena di citare The Clasp (La fibbia) come la più decisa formulazione della sua estetica manierista: «Give me the free and noble Style, / Which seems uncurbed, though it be wild: / Though it runs wild about, It cares not where; / It shows more Courage , than It doth of Fear. / Give me a Style that Nature frames, not Art; For Art doth seem to take the Pedant’s part. And that seems noble, which is Easy, Free, / Not to be bound with o’er nice Pedantry». (Dammi uno stile nobile e libero, che non sembri domato, anche se selvaggio; anche se corre impetuoso, non importa dove; se mostra coraggio e non paura. Dammi uno stile che la natura abbia disegnato, non l’arte; perché l’arte sembra stare dalla parte del pedante. E che sembri nobile, facile, libero, non frenato da pedanteria troppo cauta). Aphra Behn, più giovane e battagliera della duchessa, scriveva: «Sempre ho preferito la maniera di scrivere non elaborata, non premeditata … Non v’è dubbio che la bellezza autentica della poesia è là dove l’arte si riveste di sembianze naturali, e questo è il pregio della scrittura semplice e nobile, quando è simile alla descrizione del palazzo di Armida come è fatta dal Tasso». E qui cita il Tasso in italiano. Ma né l’una né l’altra entrò nel pantheon tutto maschile dei memorialisti e degli storici che vissero in quel secolo tempestoso: Clarendon, Burnet, North, Aubrey. Tuttavia le donne invasero la scena teatrale con la restaurazione degli Stuart nel 1660, per l’evidente compiacenza di Carlo II. E furono attrici, drammaturghe, e brillanti protagoniste delle più belle commedie della Restaurazione.

La guerra di Carlo I contro Cromwell
Al perfetto cortigiano William Cavendish, poi duca di Newcastle, di specchiata nobiltà, affettuoso marito, di cui la duchessa ha lasciato puntuale biografia, che amava e istruiva i suoi cavalli (turchi, napoletani, berberi), si può rimproverare lo stile irresponsabile con cui comandò l’esercito di Carlo I nella difficile guerra contro Cromwell. Per ironia della sorte nella battaglia di Marston Moor del 1644 furono i nuovi reggimenti di cavalleria di Cromwell a sfondare la linea difensiva dell’elegante cavalleria realista – la cavalleria era l’arma decisiva in tutte le battaglie del Seicento. Le disgraziate «casacche bianche» furono circondate e travolte. La fine della monarchia ebbe la sua tragica conclusione cinque anni dopo. I Cavendish seguirono con tutta la corte il piccolo Carlo II in esilio a Parigi, poi ad Antwerp, in Olanda. Lei scrisse l’avatar del romanzo fantascientifico, The Blazing World (1665), su un mondo abitato da specie animali diverse, tutte senzienti, capaci di linguaggio, e ognuna appartenente a una specifica corporazione. I ruoli e i mestieri sono ereditari, e sarebbe bene che ognuno tornasse al suo posto nella società: una allegoria neanche tanto nascosta della Restaurazione di Carlo II e dell’aristocrazia che avverrà nel 1660. I Cavendish tornarono nei bei possedimenti di Wellbeck e Bolsover, e William, divenuto duca, fece costruire lussuose scuderie e maneggi per gli amatissimi destrieri che educava alla bellezza, alla nobiltà di un portamento perfetto, non alla guerra. Aveva completato quel capolavoro dell’arte equestre in cui aveva distillato il suo amore e il suo sapere, la sua vita stessa, Mèthode et invention nouvelle de dresser les chevaux, terminato nel 1658. Un libro con illustrazioni bellissime di cavalli e cavalieri che ho tenuto in mano, anni fa, alla British Library, con la sensazione di tenere un oggetto ‘altro’, proveniente da un passato lontano da cui solo casualmente era emerso, ma tuttora vibrante di amori errori trionfi di cui solo un oggetto estetico può serbare innocente memoria.