Con La galassia dei dementi, pubblicato dalla Nave di Teseo nella collana «Oceani» (pp. 671, € 24,00) Ermanno Cavazzoni ha definitivamente esplicitato e portato a compimento il processo avviato con il nascere stesso della sua scrittura. L’autore ha sempre dichiarato di considerare Ariosto il più grande scrittore di tutti i tempi e il poema cavalleresco uno dei generi più produttivi e significativi. Qualche anno fa aveva lanciato un appello agli scrittori affinché fosse ripreso quel modello di scrittura: all’appello ha infine risposto lui stesso e il romanzo ne rappresenta la prova più evidente. È questa un’opera di difficile classificazione visto che si presenta come un romanzo di fantascienza, ambientato in un oscuro e sibillino «6187 d.r.», quando il pianeta ha subito una Grande Devastazione (della quale nessuno si è avveduto) e gli alieni ne hanno assunto il controllo. La terra è abitata da pochi esseri umani obesi e totalmente inetti e da droidi, macchine dall’aspetto umano, che li servono per ogni necessità. Ogni umano ha al proprio servizio un droide che ne soddisfa qualsivoglia capriccio. Il romanzo prende inizio con la famiglia Vitosi. Lui ha la sua Dafne, pelle morbidissima e forme incantevoli, programmata all’unico scopo di dare piacere al proprio padrone; lei ha il suo Piteco, maschio forte e fondamentalmente stupido, programmato anche lui per uniformarsi a ogni desiderio della signora. Proprio come nel Furioso la vicenda si mette in movimento con la fuga di Dafne con Piteco, per il quale presto la ginecoide perde ogni interesse, a favore di un altro droide, un Cupido, che la difende battendosi cavallerescamente per lei; sarà poi la volta di altri, tra cui spicca un Ippia minore, erudito professore che non perde occasione per sciorinare il proprio sapere (le guerre puniche sono il suo cavallo di battaglia).
Molte altre storie intersecano con questa e le vicende si intrecciano in una serie di ‘quadri’ che si compongono e si disfano, all’interno di un contesto fluido e mai definitivamente strutturato. Le situazioni sono ambientate in contesti diversi, ma si rivelano infine tutti compresi tra il Veneto e l’Emilia-Romagna (varie le località menzionate, come Fossamarcia, Fienil del Turco …), con il delta del Po che si affaccia spesso ben riconoscibile. Uno degli scenari più rappresentativi e giocosi (nonostante i risvolti sinistri) è rappresentato dalla città delle donne, di sapore tutto felliniano. Qui un unico maschio, il Pipo, è al servizio delle donne, che lo adorano e lo usano per il proprio piacere: un efficientissimo sistema di prenotazioni garantisce l’ordine e l’armonia, fino a quando il Pipo invecchia e le donne lo lasciano morire e passano a un Pipo più giovane e prestante.
Il rapporto oralità-scrittura
Uno dei modi migliori di leggere questo labirintico romanzo è di immaginare che sia letto dall’autore medesimo. Accompagnati dalla voce sia pure solo fantasticata dello stesso Cavazzoni, il testo assume una connotazione ulteriore. Questa Galassia dei dementi, ancora un ossequio agli stessi poemi cavallereschi, risemantizza il problema del rapporto tra oralità e scrittura. Il suono delle parole e la loro eco letteraria costruiscono lo scenario e danno corpo ai personaggi e vivacità alle situazioni. Ed è grazie alla potenza della voce narrante se gli equilibri tra i personaggi che si avvicendano consegnano al lettore un mondo in cui ogni gravame è stato sottratto alla terribilità degli scenari prospettati.
La chiave per entrare nel romanzo e nelle sue incredibili vicende sta nell’assunto fondamentale che, come le creature meccaniche, l’essere umano è dominato da una maniacalità incontenibile, determinato com’è da impulsi che ne indirizzano pensieri e azioni e che esercitano una coercizione assoluta. In realtà i personaggi sono tutti ugualmente animati da un meccanismo che li porta ad agire secondo ‘schemi di previsioni’ elaborati da ‘circuiti cognitivi’.
La galassia dei dementi si configura perciò come un’iperbolica satira, una rappresentazione grottesca dei più comuni e prevedibili comportamenti umani. L’individuo si ritiene libero e scambia i propri gesti compulsivi per esercizio di un fantomatico libero arbitrio, dunque non ha coscienza di comportarsi esattamente come una macchina programmata per una precisa finalità o come un insetto, creatura che a dire di Cavazzoni più di ogni altra assomiglia all’essere umano soprattutto visto il rapporto che lega il singolo individuo con la comunità di cui è parte. Uno degli esempi più evidenti della macchinalità umana è la mania per il collezionismo, ad esempio la passione per le grucce degli abiti. Da questo gigantesco e risibile fraintendimento scaturisce la comicità maggiore del libro: l’umanità intera, il mondo dei droidi e gli alieni hanno un comune denominatore, e tutte le categorie dei personaggi sono riconducibili alla natura degli insetti, la cui azione è frutto di un impulso non controllabile.
Tra i temi trattati spiccano la devastazione e la fine di un mondo, l’asservimento alla tecnologia, e infine la demenza che non risparmia nemmeno gli Immortali.
Il romanzo svolge in chiave scherzosa e parodica i grandi temi della letteratura (l’eroismo, l’amore, la guerra) e l’evocazione dell’antichità e di opere come l’Iliade contribuisce a confermare l’abbassamento dell’orizzonte narrativo, tanto è vero che tutto ciò che accade è l’attuazione di programmi che stanno in una scheda di memoria, riutilizzabile quando le macchine non sono più riparabili e devono essere avviate alla distruzione. Che è un modo straniante e parodico per raccontare la storia della trasmissione della cultura.
Naturalmente con Cavazzoni non c’è alcuna nota malinconica in questa narrazione, anche perché in qualche rara occasione si verifica una sorta di inceppamento, una sospensione dell’operatività in organismi programmati per eseguire ciò per cui sono stati assemblati. Ogni tanto c’è un punto morto grazie al quale si può scorgere qualcosa che non tiene perfettamente. In quel frangente si fa spazio l’elemento difforme, la bizzarria del lunatico, un’entità singolare, imprevedibile e pertanto ingovernabile. Rispetto a questo elemento balza agli occhi come umani e macchine antropomorfe siano assurdamente intenti in un rovello inspiegabile e misterioso, e come in formicaio ciascuno ha un posto e un ruolo preciso, pur restando perfettamente sostituibile. Questo mondo, tra dèi ritirati in un angolo remoto del cosmo, macchine che simulano l’umanità e umani senza scopo, sta tutto sul palmo della mano del narratore, che ne osserva i movimenti e ne ascolta i brusii come nell’operetta leopardiana dedicata ad Ercole e Atlante, e l’insieme si manifesta come faccenda risibilmente minuscola e insignificante.
Ma non è un futuro alla Asimov
Al di là della metafora, il pianeta disegnato in questo libro è sconcertante, ma non è un futuro alla Asimov. Se non ci facciamo disorientare troppo dalle date sibilline, 6187 d. r., ovvero dopo l’invenzione della ruota, ci rendiamo conto che le vicende qui narrate sono ambientate in un tempo che in realtà è prossimo rispetto al presente. A questo si può aggiungere il fatto che l’intelligenza artificiale, pur rappresentata in forma straniata e apparentemente priva di relazioni con il quotidiano di oggi, racconta situazioni abbastanza simili a quelle che conosciamo e che però quasi mai siamo in grado di vedere e di riconoscere. Dunque l’abbondanza della materia narrata, le vicende riferite a proposito di personaggi così da poco e un’accorta opera di dissimulazione coprono la rappresentazione dell’oggi nudo e crudo, che balza fuori dal manto di queste ardite fantasticazioni. De te fabula narratur. E non è un lieto fine.