Anche quando ci troviamo in uno stato di estrema solitudine, scriveva Hannah Arendt, gli esseri umani mantengono la capacità di «parlare con se stessi» e di scoprirsi, perciò, come un «due-in-uno», un essere al plurale che conserva la presenza dell’alterità anche nei recessi più intimi della coscienza. In un simile isolamento, tuttavia, rischiamo di perderci nella duplicità, di sdoppiarci senza più riuscire a recuperare noi stessi. «Il problema della solitudine», infatti, è che il «due-in-uno ha bisogno degli altri per ridiventare uno», dato che «per la conferma della mia identità io dipendo interamente dagli altri». Mettersi alla prova in un dialogo solitario con se stessi, d’altra parte, non è una forma della riflessione tra le altre, ma è il perno intorno a cui ruota la fondazione moderna del soggetto. Cos’è infatti il percorso del dubbio cartesiano se non l’esperienza radicale di un dialogo con se stessi, in lotta con i propri fantasmi? Cosa si nasconde nel «dunque» che sembra fare da ponte, come fosse l’operatore di una deduzione logica, fra momenti discontinui dell’«io» e del «sono»?

Stati patologici e non
Nel suo nuovo libro, L’immemorabile Il soggetto e i suoi doppi (Neri Pozza, pp. 188, € 18,00), Andrea Cavalletti ricostruisce questo capitolo centrale della storia del soggetto moderno facendo ruotare le sue analisi intorno a due punti focali: le riflessioni filosofiche che si sono esercitate nell’interpretazione della strategia di Cartesio e la letteratura psicologica che ha affrontato, anche in un senso speculativo, le forme patologiche degli sdoppiamenti di personalità.

Alcuni casi esemplari, scelti fra quelli che nell’Ottocento hanno avuto una risonanza particolarmente ampia, rappresentano il punto di partenza del libro e diventano poi un motivo ricorrente al quale si viene ricondotti di continuo. Lo stato patologico di chi vive più di un’esistenza, passando dall’una all’altra attraverso momenti di delirio o di incoscienza, getta infatti una luce sulla scissione che attraversa anche la condizione «normale» e che si esplicita in modo paradigmatico nelle esperienze del sonno e del sogno.

Ciò che chiamiamo «io», nota Cavalletti, è il «teatro di una battaglia» nella quale «l’uno non cessa di essere due», come avviene fin dalle più semplici riflessioni che compiamo su noi stessi, a partire da quella nella quale toccando una ferita del nostro corpo ci dividiamo nelle posizioni dell’osservatore e dell’osservato, del soggetto pensante e dell’oggetto senziente, siamo cioè «io e un altro insieme». Il nostro essere si basa su questa ambivalenza impossibile da superare e che si esprime, per esempio, nel rapporto che intratteniamo con il passato, nel lavoro produttivo della memoria, il mezzo attraverso cui cerchiamo di riallacciare un filo con ciò che abbiamo vissuto senza che sia possibile «colmare il vuoto ormai aperto nell’esistenza».

Unità e continuità dell’io sono perciò l’esito di una costruzione che tuttavia si appoggia su uno sfondo virtuale, «immemorabile», qualcosa che continuiamo a immaginare come una sorta di personalità originaria ma che per noi rimane inaccessibile. La memoria di sé «esige un sé non ricordabile», l’identità individuale «implica la scissione e la lacuna», la presenza a se stessi è solo una «promessa» aperta su una crisi sempre latente e che svela un vuoto al centro della nostra coscienza.

La discussione intorno alla formula cartesiana del «penso dunque sono», ricostruita attraverso una varietà vertiginosa di posizioni e di autori nell’arco di tre secoli, dal Settecento al Novecento, offre la possibilità di svolgere il tema dell’identità di sé proprio a partire da quella condizione di sdoppiamento che è stata oggetto di una continua rimozione.

Il filosofo non dice «dunque io sono Cartesio», non aggiunge il nome proprio al suo ragionamento, ma assume la posizione di un soggetto universale, di un’essenza pensante qualsiasi. D’altra parte, nel corso delle sue meditazioni, mantiene un controllo e un dominio di sé che esclude il rischio di sprofondare in stati estremi come quelli della patologia e della follia: il suo dubbio è «solo speculativo», scriveva nell’Ottocento Joseph Delboeuf, e perciò «insincero», ben diverso da quello «che possono patire, al risveglio, il dormiente o il folle». Inoltre il suo ragionamento, che si presenta come un sillogismo senza esserlo, ha qualcosa della finzione (Maine de Biran), della menzogna (Abbè de Lignac) oppure, a essere più concessivi, è un’intuizione alla quale manca il coraggio decisivo, quello che lo legherebbe a una certezza non tanto della propria esistenza, quanto del divino: «io penso, dunque Dio è», formula che risale ai commenti novecenteschi di Étienne Gilson e di Léon Brunschvicq.

Forse davvero l’io viene chiamato così solo per un equivoco, come ebbe a scrivere Husserl, o forse l’unica cosa che Cartesio avrebbe potuto legittimamente affermare è che a esistere è un essere «che si pensa secondo l’idea dell’io» (Alfred Fouillée). Di fatto, nella storia del soggetto moderno il gesto cartesiano ha spinto a mettere fra parentesi lo sdoppiamento e a concepire l’io in termini di controllo, proprietà, dominio di sé e delle cose che ci appartengono. Questa identificazione fra il soggetto e il possesso si è intrecciata a sua volta con una visione del politico schiacciata sul primato del diritto e dell’economia.

Avere, nudo potere
La strada che conduce dal rimuovere la scissione all’unità dell’essere, scrive Cavalletti, «passa per la proprietà», sia essa quella che afferma l’esclusività del proprio corpo – il solo principio di individuazione che resista alle moltiplicazioni dell’io, come voleva Durkheim –, sia quella che attribuisce a uno sforzo dell’attività cosciente la capacità di superare il rischio della dissociazione. D’altra parte, se «ogni idea dell’uomo serba in sé e impone una concezione della politica», ricondurre l’identità alla proprietà significa collocarla all’interno delle strutture giuridiche e statali che ne difendono le prerogative proteggendola dall’incertezza nella quale è avvolta.
Attraverso una lettura del Max Stirner di L’unico e la sua proprietà, resa immune dalle ironie di Marx, Cavalletti intravede una strada alternativa, quella di una proprietà priva di oggetto, e dunque di possesso, in grado di rispettare l’immemorabile scissione da cui proveniamo, gli «altri» in noi che rendono insostenibile l’idea di un pieno possesso di sé. È l’idea di un «puro avere» destinato a non trovare mai soddisfazione, di un «nudo potere di avere» che non si esplica mai come diritto a qualcosa.

Prospettiva rovesciata
Lo si potrebbe intendere come un arretramento rispetto alla conquista del controllo e dell’identità, ma nell’intento di Cavalletti è un rovesciamento di prospettiva che permette di superare l’immagine di una mitologica continuità del soggetto, fondata a sua volta su una visione consolidata del potere. «Tutto ciò che accade in ogni momento», scriveva all’inizio del Novecento l’anarchico tedesco Gustav Landauer, «è il passato». Non ha «l’effetto del passato», ma è «il passato stesso», qualcosa che ci determina e che ci appartiene senza che sia possibile esercitarvi una proprietà. Su questo sfondo, conclude Cavalletti, costruiamo la nostra «persona», mentre la proprietà di sé è solo una maschera inconsapevole del suo teatro, delle «forze immense che impieghiamo» ogni giorno, come diceva Walter Benjamin, per non pensare a quanto la nostra identità sia colma di cose che non ci appartengono.