Una dimenticata norma della Costituzione, l’articolo 8, prevede che la Repubblica «tutela il patrimonio storico e artistico».

Per dare effettività a questa norma alcuni giovani hanno occupato due storici monumenti torinesi (il complesso della Cavallerizza, dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco, e la caserma di via Asti, luogo di tortura di antifascisti e partigiani) per i quali si profila un futuro di speculazione e, nell’attesa, un crescente degrado. In via Asti la tutela si coniuga con la sua restituzione alla città anche attraverso una destinazione sociale (apertura di aule studio e di una mensa popolare e riqualificazione per far fronte a un disagio abitativo sempre più pesante).

Le due iniziative trovano consenso e sostegno tra i cittadini, nel mondo associativo e sindacale, negli ambienti culturali. Gli occupanti chiedono alle istituzioni l’apertura di un confronto pubblico sul futuro degli edifici.

Nel suo blog sul Corriere della Sera Tomaso Montanari sottolinea come la circostanza che, nell’inerzia (o peggio) delle istituzioni, siano i cittadini a «prendersi a cuore il loro territorio e i loro monumenti» risponde esattamente al progetto costituzionale che ha voluto responsabilizzare non un astratto «Stato» ma la «Repubblica» in tutte le sue componenti e articolazioni.

Un gruppo di intellettuali (primo firmatario Gustavo Zagrebelsky) fa appello al Comune perché soprassieda dal progetto di alienazione e smembramento della Cavallerizza e apra una stagione di «progettazione partecipata» sul suo futuro utilizzo.

Un vecchio partigiano, l’avvocato Bruno Segre (già detenuto in via Asti), nel corso della cerimonia con cui gli viene consegnato il «sigillo civico» dichiara che gli occupanti della caserma meritano l’appoggio della città. Per l’establishment torinese è davvero troppo. Così ieri interviene la scomunica di Repubblica che, con un articolo dell’avvocato Vittorio Barosio, pubblicato in prima pagina nella cronaca cittadina, non si limita a esprimere il proprio (legittimo) dissenso rispetto alle occupazioni ma invoca al riguardo «tolleranza zero» e chiede espressamente una «azione esemplare» della magistratura perché la violazione della legalità in atto «non può essere tollerata».

Gli interessi in gioco sono evidentemente assai forti! Ma c’è, oltre agli interessi, una cultura che va contrastata in radice. Nel sistema disegnato dalla nostra Carta fondamentale, infatti, la legalità – come ha insegnato Piero Calamandrei nella indimenticabile arringa in difesa di Danilo Dolci del lontano 1956 – è esattamente l’opposto del legalismo conformista, che tende alla pura conservazione dell’esistente, ed è fatta anche di «strappi» e di disobbedienza civile (di cui ci si assume, ovviamente, la responsabilità) per realizzare il disegno costituzionale. Del resto Antigone – mito della tragedia greca e simbolo, nei secoli, di libertà e di lotta contro il sopruso – per dare sepoltura al fratello, disobbedendo alla legge di Creonte, non disconosce il significato della legge e non predica l’illegalità ma si fa portatrice di una legge superiore (il «diritto degli dei») e accusa il sovrano di illegalità.

E, poi, è inutile occultare che l’invocazione della «tolleranza zero» è una opzione solo e tutta politica. Viviamo in un Paese in cui le leggi sono tanto numerose quanto violate. Perseguire la legalità significa dunque, inevitabilmente, definire gerarchie di valori e priorità di interventi. Non tutto si può fare contemporaneamente e con lo stesso impegno di risorse e intelligenza.

Occorre scegliere.

Si può cominciare lottando contro le mafie o liberando le città dalla presenza «fastidiosa» di accattoni e lavavetri, contrastando la speculazione edilizia e l’inquinamento ambientale o perseguendo chi protesta (magari con qualche eccesso) a tutela della salute propria e dei propri figli, impegnandosi per eliminare (o contenere) l’evasione fiscale oppure sgombrando edifici abbandonati occupati da «contestatori» e via elencando. Inutile dire che la definizione del calendario degli impegni (e la connessa mobilitazione dell’opinione pubblica) è scelta politica e non un vincolo giuridico.

Ma c’è di più. Anche le modalità dell’intervento teso a ripristinare una legalità che si assume violata non sono automatiche. La corsa di ciclomotori in una strada urbana si può contrastare con multe pesantissime, con un controllo del traffico da parte di vigili in divisa, con la predisposizione sulla carreggiata di apposite bande tese a impedire una velocità eccessiva; lo sgombero di baracche abusive e pericolose si può effettuare con le ruspe o con i servizi sociali, con la polizia in assetto di guerra o predisponendo soluzione abitative alternative; la legalità può essere imposta con la forza o perseguita con il confronto e la trattativa…

Ancora una volta non si tratta di automatismi giuridici ma di scelte politiche. Ed è questa – non altra – la questione aperta, oggi, a Torino.