Per onorare l’impegno preso di garantire spettacoli quasi ogni sera per tutta la durata dell’Expo, il Teatro alla Scala di Milano, oltre a mettere in campo nuove produzioni, ne riallestisce alcune del passato. Antiche glorie come Il barbiere di Siviglia di Ponnelle e La bohème di Zeffirelli; titoli più recenti come il composto Falstaff di Carsen, la sanguigna Carmen della Dante, l’esangue Tosca di Bondy e infine Cavalleria rusticana e Pagliacci di Mario Martone, in scena in questi giorni. I confronti tra le diverse edizioni sono inevitabili.

Se in Carmen Anita Rachvelishvili, una delle voci più belle degli ultimi anni, nel ruolo della protagonista sbaraglia ogni concorrente, in Cavalleria rusticana è difficile emulare Liudmyla Monastyrska, che nel gennaio del 2014 ha scolpito una Santuzza tragica, perfettamente sfogata e padrona in tutti i registri dell’impervia tessitura, intensissima e allo stesso tempo misurata nell’interpretazione. Luciana D’Intino nel 2011 e Violeta Urmana in questi giorni se la cavano da professioniste di altissimo livello, ma senza entusiasmare. In Turiddu Stefano La Colla, al contrario, convince molto di più del compianto Salvatore Licitra (2011) e di Jorge De León (2014). L’Alfio di Marco Vratogna, così come il suo Tonio in Pagliacci, sono inascoltabili. La Lola di Oksana Volkova è brunita e statica. La Lucia di Mara Zampieri, un soprano a fine carriera che canta da contralto, è grottesca.

In Pagliacci la Nedda di Fiorenza Cedolins, pur con le sue debolezze, è incomparabile a quella pessima di Oksana Dyka; allo stesso modo il Canio di Marcio Berti, pur un po’ troppo gridato e sfuocato quanto tenta le mezze voci, fa dimenticare quello di José Cura. La direzione di Carlo Rizzi fa rimpiangere quella di Daniel Harding: tanto quest’ultima era coerente con la lettura scenica cruda di Martone, impegnando l’orchestra in un suono fortemente chiaroscurato, a volte corrusco a volte estatico, attraversando le due partiture con tensione drammatica e ricerca timbrica costanti, quanto quella presente è generica, slabbrata, imprecisa nel tenere insieme attacchi dell’orchestra e dei cantanti.

Il coro, invece, ora come allora, nucleo morale delle due opere a metà strada tra tragedia greca e dramma borghese, canta magistralmente sotto la direzione di Bruno Casoni. Mai abbastanza lodata l’interpretazione scenica di Martone.

In Cavalleria rusticana si sviluppa come una coreografia, con movimenti e oggetti di scena rarefatti e sempre significanti, sviscerati, necessari, e solo la luce a creare gli spazi: geniale l’assimilazione casa/chiesa, col coro sempre in scena e la posizione (di fronte o di spalle al pubblico) a indicare inclusione/esclusione, tolleranza/condanna della protagonista. In Pagliacci dà corpo alla poetica di Leoncavallo, secondo cui l’autore ha cercato pingervi uno squarcio di vita, ambientando la storia tra i piloni della sopraelevata di una squallida periferia urbana e restituendo ai personaggi le passioni bestiali di cui sono portatori.